sabato 29 marzo 2025

La gioia, all'improvviso

 


“Sono arrivato alla gioia dal dolore”

La buona letteratura prende lo spunto, a volte, dalle esperienze personali degli stessi autori. E quando ciò si manifesta non sai mai come catalogare il libro che stai leggendo, perché ti appare ora come un racconto autobiografico ora come un romanzo-saggio, ora come un diario. E man mano che scorri le sue pagine, all’interno delle quali spesso trovi riflessioni sorprendenti e di rara bellezza, avverti che il suo fascino risiede proprio in questa molteplicità di aspetti letterari, in questi flash mentali che scorrono lievi e struggenti sulla pagina. E’ lo stile narrativo, questo, che usa lo scrittore spagnolo Manuel Vilas ne “La gioia, all’improvviso”, già adottato nel suo primo romanzo  “In tutto c’è stata bellezza” che gli ha dato notorietà a livello internazionale.

Con “La gioia, all’improvviso” l’autore-protagonista si trascina per il mondo dietro qualcosa di nuovo che è comparso nella sua vita: un entusiasmo che a volte chiama bellezza, e altre volte gioia. Accompagnato dal figlio o dalla moglie - durante i suoi viaggi di lavoro, tra una città e l’altra, a presentare il suo libro o a tenere conferenze – approfitta dei momenti di dolce solitudine per ricordare il suo passato, le sue radici, i suoi amatissimi genitori, veri protagonisti del libro sebbene siano scomparsi da diversi anni. Ma l’autore continua a cercarli, forse perché cercandoli cerca sé stesso. Il libro è un autentico inno d’amore per un padre e una madre che vengono quasi divinizzati, perché “abbiamo tutti una necessità immensa di continuare a parlare con i nostri morti”. E lo scrittore spagnolo cerca di riannodare questa conversazione.

Nel libro ritroviamo i pensieri più intimi e più dolorosi dello scrittore: le sue amicizie, che sono sempre temporanee come gli amori; i suoi ricorrenti pensieri suicidi, che mai potrebbe mettere in atto perché causerebbe un dolore insanabile ai suoi familiari; e poi, la paura della morte, che ci coglie sempre soli anche se “abbiamo costruito l’illusione della compagnia…con l’invenzione della famiglia, dell’amicizia, dei legami incondizionati, anche se nessuno osa pensare alla propria morte che “non è brutta, l’abbiamo resa brutta noi”, ed è sempre quella degli altri, come se la nostra non esistesse. E poi i suoi fantasmi, che non lo abbandonano mai, in primis quello che lui chiama “Nosferatu”, il quale ha scelto come “dimora” il suo corpo “dove vive a proprio agio”: la depressione, “morso di un lupo sconosciuto sul benessere dei tuoi pensieri, della tua anima, della tua coscienza, del tuo equilibrio”; e poi ci sono i suoi anni tremendi avvolti nell’alcol, perché “l’inferno si presenta sempre con gli ornamenti del paradiso. E’ un classico della vita. Entri all’inferno credendo di entrare in paradiso…vai verso la morte ricordando che sei stato un grande bevitore. E la morte non può più farti nulla che non ti abbia fatto prima la vita”. Le sue notti insonni sono frequenti, come quella volta a Venezia: “Non sono quasi riuscito a dormire, mi svegliavo in continuazione. Mi alzavo dal letto e andavo a guardare il panorama: il buio, l’acqua, di tanto in tanto una chiatta che solcava il Canal Grande. Venezia alle tre di notte, alle quattro di notte. Sempre più vicino agli artigli di Nosferatu, in una liturgia di disperazione intelligente. Cercavo di ripassare in rassegna le cose meravigliose della vita”.

“Non sono un uomo – dice Vilas - sono un corpo che invecchia…un viaggiatore della parola”. Perché lui si è sempre sentito fuori dal dibattito sociale e dalle lotte di potere tra uomini e donne. Ma per sentirsi un uomo o una donna “bisogna avere vanità”. E lui non ce l’ha. Quella vanità che tutti accettano affinché “ci siano discendenza, lotta, movimento, aggressione, delitto, passione, ingiustizia”. Gli costa moltissimo trovare il suo posto nel mondo, forse non l’ha mai trovato perché non ha mai saputo quale finalità avesse la sua vita. E perciò vaga per il mondo. E viaggia.

Ma c’è tanto posto per la bellezza, nel libro, che non si mostra “agli esseri umani in gioventù, né durante la prima maturità. Piuttosto si mostra quando tutto comincia ad andarsene”. “L’unico modo per vivere in pace, all’età che ho io – scrive Vilas - è respirare un po' di bellezza. Forse la bellezza che arriva dal passato, come se fosse una fede o una religione. Se lo adoriamo, se ne facciamo un oggetto di culto, come faccio io, il passato ci invia un po' di gioia velata…ma quant’è difficile trovare la gioia profonda in questo mondo e quanto poco durano i momenti di gioia”.  Sono parole, queste, che provengono da un’esperienza personale ma hanno una valenza universale, dal forte impatto emotivo, perché “tutto ciò che ci è accaduto torna altrove e in altri esseri umani”. E’ il miracolo della letteratura, quella vera. E’ la dolcezza dei ricordi, e più s’invecchia e più affiorano. Eppure, abbiamo paura di “discendere nel passato”, ci “fanno male i suoi enigmi” e allora “ci inventiamo il presente”. Ma “cosa c’è nel mio presente – dice l’io narrante del libro - se non quell’ostinata e oppressiva e decadente e voluttuosa abbondanza del passato”.

Nel libro non mancano le considerazioni sul suo paese di origine, la Spagna, “che ha gente meravigliosa, però le sue élite politiche, sociali, economiche e intellettuali sono malate…sono sempre state le élite a rovinarci”; non mancano le riflessioni sul mondo caotico in cui viviamo dove non esiste più il silenzio, “una cosa che scarseggia dovunque”, quel silenzio che “soltanto la musica ha la legittimità di distruggerlo”. Ma la nostra civiltà produce solo rumori, solo la natura produce suoni. E “quando il suono si trasforma in rumore comincia il degrado della vita”.

Se io dovessi riassumere questo libro con tre aggettivi, direi: malinconico, struggente, poetico.


mercoledì 12 marzo 2025

Una mutazione antropologica

 


Quando ti trovi a discutere dell’attuale incontrollabile sviluppo tecnologico e digitale, che sta cambiando il mondo e le sue regole di vita, è facile che si crei una netta contrapposizione tra i sostenitori tout court di questa rivoluzione globale e chi invece – come il sottoscritto -  nutre più dubbi che certezze nei suoi confronti.

La tecnica sta producendo nel mondo, attraverso le sue innovazioni e i suoi strumenti altamente invasivi, scenari inquietanti e incontrollabili. E il genere umano, sotto questa continua spinta, sta subendo una vera e propria mutazione antropologica e culturale. Prendiamo, per esempio, l’intelligenza artificiale, ossia quell’insieme di capacità tecnologiche in grado di eseguire una serie infinita di funzioni avanzate, attraverso una macchina, e riprodurre quei processi mentali più complessi, propri di un essere umano. Ebbene, in molti campi potrebbe essere anche utile e preziosa, aiutando così l’umanità ad ampliare le possibilità di conoscenza. Ma quando poi leggo che grazie all’I.A. le immagini, le parole, il volto di una persona e i fatti possono essere travisati e sostituiti, senza che nessuno sia in grado di distinguere il vero dal falso, allora non posso non preoccuparmi. E chiedermi: chi dovrà fermare l’intelligenza artificiale quando diventa così pericolosa? L’umanità è già in pericolo da quando è stata inventata la bomba atomica e tutte le altre armi chimiche e nucleari di distruzione di massa. Di pazzi che governano il mondo io ne vedo tanti in giro e non vorrei che a questi si aggiungesse pure un robot di grande intelligenza, ma impazzito. Diceva Gunther Anders (non smetterò mai di citarlo) che “ciò che sappiamo produrre non possiamo non produrlo, ma anche perché non possiamo non usare ciò che abbiamo prodotto. Stando così le cose – diceva ancora Anders - viviamo in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra stessa distruzione (ciò che non sappiamo è solo il momento in cui essa avverrà)”. Questo per dire che la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti deleteri del nostro fare.

Sarebbe urgente, allora, un ripensamento del modus operandi che tenga conto di quella distinzione tanto cara a Pasolini tra “sviluppo” e “progresso”. E la nostra epoca - non dimentichiamolo - agisce secondo logiche di mercato e di sviluppo, non di progresso. Il “progresso” è quella condizione che determina l’elevazione culturale e morale e spirituale di un paese, da cui nasce una migliore qualità della vita. Ho l’impressione che oggi questa crescita qualitativa arranchi (se non è già scomparsa), di fronte al processo tecnico-economico-produttivo - lo sviluppo, appunto - che avanza sempre più velocemente, attivando cambiamenti e sconvolgimenti in tempi brevissimi.

Nel nome di uno scellerato sviluppo tecnologico, pieno di effetti collaterali negativi e di una crescita economica illimitata, stiamo mettendo a repentaglio anche il clima del pianeta, contaminando l’aria, l’acqua e il suolo. Perché dobbiamo correre e produrre e consumare sempre di più, altrimenti l’economia collassa. Così ci dicono. Ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere per costruire il migliore dei mondi possibili? Io penso che l’uomo debba ristabilire con la natura l’equilibrio perduto e tornare a coltivare il suo limite umano, anche avvalendosi della tecnica ma senza che la stessa diventi il potere assoluto e dominante nel mondo.


sabato 8 marzo 2025

Sicilianità: una condizione esistenziale

 


Io penso che nel mondo della letteratura nessuno sia riuscito a cogliere meglio la natura peculiare di una comunità - illustrandone le caratteristiche più profonde attraverso storie umane – come gli scrittori siciliani dei loro conterranei. Da Verga a Pirandello, da Patti a Brancati, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, tutti questi grandi autori - provenienti da quella “provincia dell’intelligenza”, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia - hanno descritto la condizione umana ed esistenziale dell’essere siciliani, sintetizzabile in una sola parola: sicilianità. Attraverso le loro opere hanno svelato il carattere distintivo di un popolo, nel bene e nel male, fortemente influenzato dal passaggio di tante altre civiltà conquistatrici, a cominciare dai greci e dai bizantini, e poi via via dagli arabi, dai normanni e dagli spagnoli. 

Durante le mie letture credo di essermi imbattuto in tre tipologie diverse di sicilianità: e sono sicuro che non sono le uniche, ammesso che si possa catalogare l’identità socio-culturale di un paese e dei suoi abitanti. La prima che mi viene in mente è quella che aleggia nei libri di Vitaliano Brancati e del suo grande amico e scrittore Ercole Patti: una sicilianità incarnata da personaggi maldestri e smidollati, perdigiorno disincantati, improbabili seduttori, vanitosi e indolenti, che vivacchiano in un’isola assolata e addormentata, dove comicità e tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano. Un modo di essere siciliani, questo, condizionato da convenzioni sociali e pregiudizi e incentrato in un microcosmo dove la vita scorre lenta e immobile, monotona, noiosa…e dolce. Ma così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Patti, “che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania”.  

Poi c’è la sicilianità che traspare dai libri di Verga e Pirandello, precursori di uno scavo psicologico dei personaggi e, al tempo stesso, sostenitori dei valori e delle tradizioni di una terra antica, ma anche interpreti del divario economico e culturale che si era venuto a creare a seguito dell’Unità d’Italia tra nord e sud. E’ la Sicilia degli ultimi, dei pescatori, dei contadini, degli strati sociali più poveri dell’isola,  chiusi nella loro gretta mentalità, legati a rituali arcaici e sorretti da codici d’onore, sempre in lotta tra di loro, incapaci di aprirsi agli altri per trovare un reciproco positivo sostegno.

E, infine, c’è l’aristocrazia terriera e poi la borghesia che per molti secoli hanno rappresentato il potere politico, economico e sociale della Sicilia, forse l’espressione più alta, più ricca, più discutibile della sicilianità, fatta di luci e di ombre, di legalità e ingiustizia, di bellezza e bruttezza, mirabilmente descritta da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa in quei due capolavori della nostra letteratura che sono “I Vicerè” e “Il Gattopardo”, le cui vicende si pongono a cavallo di due epoche: la borbonica e la sabauda. Al centro della narrazione, due illustri e nobili casate: la famiglia Uzeda di Francalanza – i Vicerè, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo – e la famiglia principesca dei Salina che ruota intorno al fascino irresistibile del protagonista, il Principe Fabrizio, metafora idealizzata dell’aristocrazia siciliana, colta e raffinata tardo-ottocentesca. Due saghe familiari rivelatrici di un ambiguo rapporto di attrazione-avversione verso un mondo scomparso, ma all’epoca dominante nell’isola.

Se dal romanzo di De Roberto emerge un potere cinico, sprezzante, che si regge su latifondi messi a rendita, i cui protagonisti - morbosamente  attaccati alla roba e ai titoli nobiliari - si detestano e si tiranneggiano a vicenda, pur di conquistare ricchezza e prestigio; dall’opera di Tomasi di Lampedusa affiora l’orgoglio di una dinastia decadente, alla fine del suo splendore, incarnata da Don Fabrizio, Principe di Salina. Il quale, incalzato dal Segretario prefettizio arrivato direttamente dal Piemonte, con il compito di convincerlo ad accettare la nomina a Senatore del futuro Regno d’Italia, declina decisamente l’offerta, pronunciando un lungo e intenso monologo - una sorta di testamento spirituale - che sancisce, come nessuno aveva mai fatto, la “sicilianità” di un intero popolo.

“Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee – dice il Principe di Salina - tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “là” (…) Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. (…) tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi (…) vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi (…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria (…) La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”