“Volevo
essere veramente grande, epico, smisurato; volevo compiere qualcosa di
gigantesco, d’inaudito, che cambiasse la faccia della terra e il cuore degli
uomini”
Tantissimi sono gli scrittori della
nostra letteratura che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. Generalmente
tali memoriali si redigono alla fine del proprio percorso umano e professionale,
proprio al fine di redigere una sorta di resoconto di un’intera esistenza. Giovanni
Papini, invece – controverso e inquieto scrittore, ma anche intellettuale molto
apprezzato per il suo stile erudito - quando pubblicò il suo libro autobiografico
“Un uomo finito” (era il 1913) aveva da
poco superato i trent’anni e ne avrebbe vissuti altri 43. Io credo che
scrivere le proprie memorie sia una scelta ispirata da un inconscio desiderio
narcisistico: voler mettere sé stessi al centro della scena e quindi della
narrazione. E Giovanni Papini, per soddisfare questo suo impellente desiderio
autocelebrativo, non poteva aspettare gli ultimi anni della sua vita: gli
bastavano i primi trenta già vissuti in maniera esaltata. C’è da dire, però,
che se l’autore non possiede vocazione letteraria, il rischio che il racconto
possa risultare noioso agli occhi del lettore è davvero molto alto. Devo
confessare che questo rischio non si corre affatto con lo scrittore fiorentino
Giovanni Papini, perché la sua narrazione, seppure enfatica e sfacciata,
iperbolica e ambiziosa, finisce per lasciare un segno e conquistare chi legge,
soprattutto grazie alla sua prosa roboante, colta e raffinata, così inusuale e
così lontana dai tempi mediocri in cui viviamo.
“Io
mi presento ai vostri occhi con tutti i miei dolori, le mie speranze e le mie
fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né consolazioni, ma
soltanto tre o quattr’ore della vostra vita. E se dopo avermi ascoltato
crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo
finito dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar
troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto”. Sono
queste le ultime parole - che spiegano anche il titolo alquanto fuorviante del
libro – con cui Papini si commiata dai lettori. E devo dire che le “quattr’ore
della mia vita” di questo nuovo anno, che
lui chiedeva per poter leggere le 327 pagine di “Un uomo finito” (Vallecchi
editore) non sono state affatto sprecate. Ma chi era Giovanni Papini? Ce lo
racconta lui stesso in questo libro encomiastico: un uomo afflitto da “smania di sapere”, il quale non ebbe
piacere più grande né consolazione più sicura del leggere; un uomo nato con la
malattia della grandezza i cui vizi erano la carta bianca e la carta stampata.
Tutto quello che c’era di poetico, di malinconico e di solitario in lui l’aveva
ereditato – così scrive - dalla campagna toscana. Pochi riuscivano a
resistergli: il parlare animoso, la facilità di improvvisazione, la pratica
della scherma dialettica, la sfacciataggine della sua immensa erudizione gli
davano il sopravvento e la forza di sentirsi il migliore, il più grande. Simile
a un dio. Scrive nel suo libro che era nauseato dal banale, dall’ordinario, dal
buon senso comune e per odio dell’esistente e degli uomini si abbandonava al
sogno e alla solitudine della campagna, cercando non l’amicizia dei suoi simili
ma quella delle piante. Così facendo si creava un mondo fantastico dove si
ritirava e dov’era “padrone e re senza
legge”. Non accettava la realtà in cui viveva perché ne voleva un’altra “più pura, più perfetta, più angelica, più
divina”. Rinnegava il passato salvando solo “gli spiriti magni, i fratelli sepolti eppur vivi e presenti” che
lo avrebbero consolato negli anni della solitudine. Li amava quei maestri “quei
cadaveri celebri, sepolti sotto i marmi ed i secoli” perché lo invitavano
all’odio e lo aiutavano a fuggire e si sentiva bene soltanto con loro: Dante,
Shakespeare, Baudelaire, Leopardi, Whitman, Carducci, Goethe, Cervantes,
Dostojevski, Stendhal, Platone, Nietzsche…furono i suoi “compagni delle veglie rinchiuse”, che in maniera diversa lo
facevano crescere e lo arricchivano. Soltanto fra quei pensieri sentiva il mondo degno di sé. E
tanto forte era l’amore per i grandi morti quanto il disprezzo per i “piccoli vivi”. Riteneva che nessun uomo
– tolti i tre o quattro compagni di avventure – fosse un suo pari. Nessuno gli
sembrava degno di giudicarlo e neanche di stargli accanto.
In poco tempo Papini si fece “una fama di terribile e di strafottente”.
Molti lo odiavano (che poi era quello che desiderava) perché aveva “sempre sentito più bisogno di nemici che
d’amici”; voleva che il suo passaggio sulla terra lasciasse “una traccia più profonda di una rivoluzione
o d’un cataclisma”. Scrive nel suo libro che la vita degli uomini, lenta e
volgare, lo nauseava sempre di più. Voleva che anche gli altri sentissero
questa nausea e trovassero la forza per uscirne. E lui si considerava il “gran predestinato” , colui che avrebbe
dovuto accompagnarli verso la salvezza. “Per
agire sugli uomini bisogna conoscerli – scrive nel libro - per cambiare le loro anime bisogna esserci
saputi entrare, averle penetrate colla simpatia e coll’amore…Chiunque voglia
trovare le vie del loro cuore e scoprire la molla de’ loro atti deve aver
conosciuto i loro pensieri più segreti, i loro bisogni più gravi, le loro
scelte più nascoste”. Papini diceva che tutti sono buoni ad amare gli
uomini chiusi nella propria casa. Ma quell’amore diventa disprezzo quando si
esce fuori e si ha che fare con loro. Si era convertito dall’anticlericalismo
al cattolicesimo leggendo i vangeli “per
cercarvi Cristo” ed era rientrato nelle chiese non soltanto per ammirarne
l’architettura e la bellezza ma “per
ritrovarvi Iddio”.
Ma chi era veramente Giovanni
Papini? Un genio…un folle … un polemista…un poeta e scrittore maledetto? Certamente è un autore “immeritatamente
dimenticato” come lo definì Luis Borges. Vi lascio ancora alle sue parole: “Io sono, per dir tutto in due parole, un
poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico.
Come queste due anime possano stare insieme e ritrovarsi bene, sarebbe troppo
lungo a descrivere. Ma veramente è questo il fondo dell’anima mia (…) Soltanto
gli imbecilli confitti a vita nell’imbecillità possono dichiararsi soddisfatti
del mondo. Chi tenta di smuoverlo, di animarlo, d’incendiarlo, di rinnovarlo ed
accrescerlo ha diritto – non alla riconoscenza di cui fo a meno ora e sempre,
ma alla libertà di parlare e di esistere. Ogni uomo ha bisogno, per vivere, di
non credersi totalmente inutile. Io non chiedo e non voglio altro appoggio – ma
di questa miserabile certezza ho bisogno anch’io, alla pari dei deboli. Io vivo
ed agisco ben sapendo che tutta la mia vita e la mia azione sprofonderà nel
nulla ma voglio che gli altri sentano che ho il diritto di star fra loro e di
offenderli perché faccio qualcosa che a loro stessi può giovare. In un mondo
dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a
comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione
delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il
mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura…io sono uno di questi
uomini che accettano il più ingrato dovere e la parte più pericolosa. E per il
bene e per il male che faccio ho diritto di respirare, di riscaldarmi, di
camminare, di alzar la testa, d’essere libero, di esistere secondo la mia
legge”.
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