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martedì 7 gennaio 2020

Un uomo "affamato di grandezza"




“Volevo essere veramente grande, epico, smisurato; volevo compiere qualcosa di gigantesco, d’inaudito, che cambiasse la faccia della terra e il cuore degli uomini”

Tantissimi sono gli scrittori della nostra letteratura che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. Generalmente tali memoriali si redigono alla fine del proprio percorso umano e professionale, proprio al fine di redigere una sorta di resoconto di un’intera esistenza. Giovanni Papini, invece – controverso e inquieto scrittore, ma anche intellettuale molto apprezzato per il suo stile erudito - quando pubblicò il suo libro autobiografico “Un uomo finito” (era il 1913) aveva da poco superato i trent’anni e ne avrebbe vissuti altri 43. Io credo che scrivere le proprie memorie sia una scelta ispirata da un inconscio desiderio narcisistico: voler mettere sé stessi al centro della scena e quindi della narrazione. E Giovanni Papini, per soddisfare questo suo impellente desiderio autocelebrativo, non poteva aspettare gli ultimi anni della sua vita: gli bastavano i primi trenta già vissuti in maniera esaltata. C’è da dire, però, che se l’autore non possiede vocazione letteraria, il rischio che il racconto possa risultare noioso agli occhi del lettore è davvero molto alto. Devo confessare che questo rischio non si corre affatto con lo scrittore fiorentino Giovanni Papini, perché la sua narrazione, seppure enfatica e sfacciata, iperbolica e ambiziosa, finisce per lasciare un segno e conquistare chi legge, soprattutto grazie alla sua prosa roboante, colta e raffinata, così inusuale e così lontana dai tempi mediocri in cui viviamo.

“Io mi presento ai vostri occhi con tutti i miei dolori, le mie speranze e le mie fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né consolazioni, ma soltanto tre o quattr’ore della vostra vita. E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto”. Sono queste le ultime parole - che spiegano anche il titolo alquanto fuorviante del libro – con cui Papini si commiata dai lettori. E devo dire che le “quattr’ore della mia vita” di questo nuovo anno, che lui chiedeva per poter leggere le 327 pagine di “Un uomo finito” (Vallecchi editore) non sono state affatto sprecate. Ma chi era Giovanni Papini? Ce lo racconta lui stesso in questo libro encomiastico: un uomo afflitto da “smania di sapere”, il quale non ebbe piacere più grande né consolazione più sicura del leggere; un uomo nato con la malattia della grandezza i cui vizi erano la carta bianca e la carta stampata. Tutto quello che c’era di poetico, di malinconico e di solitario in lui l’aveva ereditato – così scrive - dalla campagna toscana. Pochi riuscivano a resistergli: il parlare animoso, la facilità di improvvisazione, la pratica della scherma dialettica, la sfacciataggine della sua immensa erudizione gli davano il sopravvento e la forza di sentirsi il migliore, il più grande. Simile a un dio. Scrive nel suo libro che era nauseato dal banale, dall’ordinario, dal buon senso comune e per odio dell’esistente e degli uomini si abbandonava al sogno e alla solitudine della campagna, cercando non l’amicizia dei suoi simili ma quella delle piante. Così facendo si creava un mondo fantastico dove si ritirava e dov’era “padrone e re senza legge”. Non accettava la realtà in cui viveva perché ne voleva un’altra “più pura, più perfetta, più angelica, più divina”. Rinnegava il passato salvando solo “gli spiriti magni, i fratelli sepolti eppur vivi e presenti” che lo avrebbero consolato negli anni della solitudine. Li amava quei  maestri “quei cadaveri celebri, sepolti sotto i marmi ed i secoli” perché lo invitavano all’odio e lo aiutavano a fuggire e si sentiva bene soltanto con loro: Dante, Shakespeare, Baudelaire, Leopardi, Whitman, Carducci, Goethe, Cervantes, Dostojevski, Stendhal, Platone, Nietzsche…furono i suoi “compagni delle veglie rinchiuse”, che in maniera diversa lo facevano crescere e lo arricchivano. Soltanto fra quei pensieri sentiva il mondo degno di sé. E tanto forte era l’amore per i grandi morti quanto il disprezzo per i “piccoli vivi”. Riteneva che nessun uomo – tolti i tre o quattro compagni di avventure – fosse un suo pari. Nessuno gli sembrava degno di giudicarlo e neanche di stargli accanto.

In poco tempo Papini si fece “una fama di terribile e di strafottente”. Molti lo odiavano (che poi era quello che desiderava) perché aveva “sempre sentito più bisogno di nemici che d’amici”; voleva che il suo passaggio sulla terra lasciasse “una traccia più profonda di una rivoluzione o d’un cataclisma”. Scrive nel suo libro che la vita degli uomini, lenta e volgare, lo nauseava sempre di più. Voleva che anche gli altri sentissero questa nausea e trovassero la forza per uscirne. E lui si considerava il “gran predestinato” , colui che avrebbe dovuto accompagnarli verso la salvezza. “Per agire sugli uomini bisogna conoscerli – scrive nel libro - per cambiare le loro anime bisogna esserci saputi entrare, averle penetrate colla simpatia e coll’amore…Chiunque voglia trovare le vie del loro cuore e scoprire la molla de’ loro atti deve aver conosciuto i loro pensieri più segreti, i loro bisogni più gravi, le loro scelte più nascoste”. Papini diceva che tutti sono buoni ad amare gli uomini chiusi nella propria casa. Ma quell’amore diventa disprezzo quando si esce fuori e si ha che fare con loro. Si era convertito dall’anticlericalismo al cattolicesimo leggendo i vangeli “per cercarvi Cristo” ed era rientrato nelle chiese non soltanto per ammirarne l’architettura e la bellezza ma “per ritrovarvi Iddio”.

Ma chi era veramente Giovanni Papini? Un genio…un folle … un polemista…un poeta e scrittore maledetto?  Certamente è un autore “immeritatamente dimenticato” come lo definì Luis Borges. Vi lascio ancora alle sue parole: “Io sono, per dir tutto in due parole, un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico. Come queste due anime possano stare insieme e ritrovarsi bene, sarebbe troppo lungo a descrivere. Ma veramente è questo il fondo dell’anima mia (…) Soltanto gli imbecilli confitti a vita nell’imbecillità possono dichiararsi soddisfatti del mondo. Chi tenta di smuoverlo, di animarlo, d’incendiarlo, di rinnovarlo ed accrescerlo ha diritto – non alla riconoscenza di cui fo a meno ora e sempre, ma alla libertà di parlare e di esistere. Ogni uomo ha bisogno, per vivere, di non credersi totalmente inutile. Io non chiedo e non voglio altro appoggio – ma di questa miserabile certezza ho bisogno anch’io, alla pari dei deboli. Io vivo ed agisco ben sapendo che tutta la mia vita e la mia azione sprofonderà nel nulla ma voglio che gli altri sentano che ho il diritto di star fra loro e di offenderli perché faccio qualcosa che a loro stessi può giovare. In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura…io sono uno di questi uomini che accettano il più ingrato dovere e la parte più pericolosa. E per il bene e per il male che faccio ho diritto di respirare, di riscaldarmi, di camminare, di alzar la testa, d’essere libero, di esistere secondo la mia legge”.







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