sabato 7 settembre 2019

Quando viaggiare era un'arte



In un lontano passato solo poche persone viaggiavano: in primis, i mercanti che affrontavano molte difficoltà per trasportare le loro mercanzie da un paese all’altro; poi c’erano i pellegrini che si incamminavano verso i luoghi dello spirito per ottenere l’indulgenza, attraverso percorsi che hanno disegnato le mappe geografiche dell’Europa medioevale;  ed infine troviamo gli artisti (scrittori, pittori, musicisti…) che a ragion veduta erano i veri viaggiatori – figure romantiche ormai scomparse - che cercavano ispirazioni culturali nelle città d’arte in cui si recavano. Un viaggio in Italia (Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Pompei, tanto per citare le località più ambite), costituiva il coronamento della buona educazione dei giovani delle famiglie benestanti, che si apprestavano a fare il loro ingresso nella società ricca e borghese del tempo. Il loro viaggio – il cosiddetto “Grand Tour” - durava mesi, a volte anni, grazie soprattutto alle disponibilità finanziarie degli interessati, ma anche alla lentezza dei mezzi di trasporto: ci si spostava in carrozza o a piedi, attraverso strade e sentieri accidentati e poco affidabili, sostando in locande e bettole in cui promiscuità e gravi carenze igieniche erano la normalità. Si pensava che tramite queste esperienze di vita si potessero acquisire doti di capacità, conoscenze e coraggio, necessarie ai rampolli di quell’aristocrazia europea impegnata soprattutto in un’attenta gestione delle proprie ricchezze.
Il Settecento - scrive Attilio Brilli, uno dei massimi esperti di letteratura da viaggio, nel suo interessantissimo saggio che si intitola “Quando viaggiare era un’arte”, con sottotitolo “il romanzo del Grand Tour” – è stato il secolo d’oro dei viaggi, “l’era di una cultura saldamente ancorata ai parametri della ragione ottimistica, cosmopolita e soprattutto itinerante”. Si partiva per l’ignoto e per conoscere e studiare le vestigia delle antiche civiltà, con un occhio attento al “viaggio di dentro ritagliato nelle anse e nelle pause di quello di fuori”.
E il “viaggiatore”, che nel passato percorreva la sua strada quasi sempre in solitudine e in lentezza – tranne i rampolli delle famiglie aristocratiche che si facevano scortare da un vero e proprio corteo di servitori e lacchè, precettori e medici, cuochi e palafrenieri - in un’epoca caotica e massificata come la nostra si è trasformato in “turista” che aspira ad essere guidato e portato in giro, a condividere in gruppo e senza sforzo le medesime esperienze. Esperienze ed emozioni che, vissute da pochi, apparivano uniche ed irripetibili, cessano di essere significative quando vengono vissute da tutti alla stessa maniera. Quell’arte di viaggiare, riservata un tempo alle classi più colte, oggi si è come frantumata al ritmo squilibrato del turismo di massa, sommerso da “consigli” sul dove andare e su cosa visitare, a scapito della qualità, della lentezza e della riflessione. L’antropologo e filosofo Levy-Strauss – scrive Brilli nel suo libro – dice che i viaggi non sono più in grado di concederci promesse di sogno e tesori incontaminati, poiché la prima cosa che vediamo viaggiando per il mondo è la nostra sporcizia gettata in faccia all’umanità. Anche per questo i libri di viaggio – prosegue Levy-Strauss – creano l’illusione di qualcosa che non esiste più ma che vorremmo esistesse ancora.

6 commenti:

  1. Qualità, lentezza e riflessione... Tutto perduto, è vero.
    Bello trovare un blog che vale la pena seguire.

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    1. Ben arrivato qui, Roberto, e grazie per le tue parole di apprezzamento

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  2. il viaggio dovrebbe contenere un minimo di incertezza, non dico di andare totalmente alla ventura ma lasciare qualche spiraglio al caso, all'imprevedibilità, questo sì.
    anche il turismo ciclistico ha cambiato pelle: sono sempre più quelli che scelgono "pacchetti" preconfezionati, tappe prestabilite, pernottamenti già prenotati, un accompagnatore esperto (e prepagato) pronto a risolvere anche il più piccolo inconveniente e addirittura un pullmino al seguito che ti raccatta quando sei stanco.
    A parte la spesa, che con gli stessi soldi potresti girare da solo il doppio dei giorni, è proprio lo spirito del viaggio che viene a mancare in questi casi.
    massimolegnani

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    1. Le incertezze e gli imprevisti per il viaggiatore di un tempo erano davvero tanti. Per esempio, quando dovevano attraversare un fiume o intraprendere una salita di montagna, bisognava smontare in pezzi la carrozza, che sarebbe stata rimontata dopo l'attraversamento. Non parliamo poi delle sorprese che si potevano incontrare lungo il cammino. Insomma "lo spirito del viaggio" non mancava. Oggi tutt'al più ci lamentiamo se non troviamo nella camera d'albergo il televisore da 32 pollici. Ciao Carlo e buona domenica

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  3. Forse generalizzare è un po troppo,forse esiste ancora "lo spirito del viaggio", la ricerca della dimensione della propria anima,quella certezza tra verità che cita Levy Strauss di una sporcizia gettata in faccia o "prodotta" dalla stessa umanità e quella di un viaggio interiore incontaminato che dà vita ad un post simile come riscatto ad una nuova forma di bellezza da cui ancora si può attingere !

    Che non sia allora la mia di "illusione" dove leggere mi porta ancora a viaggiare dentro e dentro mi porta a viaggiare fuori .



    L.

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    1. Non sono un "viaggiatore", nell'accezione più nobile del termine, però mi piace molto "viaggiare" con i libri dei grandi viaggiatori del passato, quelli che hanno avuto la possibilità di raccontare un mondo ancora "vergine", non ancora omologato e stravolto da un turismo di massa sempre più vorace.

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