Chi mi segue su questo blog avrà
certamente notato che mi piace dissotterrare vecchi libri, che sembrano del
tutto dimenticati dal mercato editoriale e dagli stessi lettori. Penso che
certi autori del passato, morti da tempo, siano più vivi di tanti scrittori contemporanei. Questi libri - che spesso sono fuori catalogo e quindi non vengono più
ristampati - io li trovo quasi sempre gironzolando tra i banchetti dei
mercatini dell’usato. E’ il caso di “Poveri
e semplici” di Anna Maria Ortese, romanzo che si aggiudicò il Premio Strega
negli anni sessanta. Il titolo dell’opera è emblematico, perché rimanda alla
difficile condizione socio-economica di alcuni giovani squattrinati i quali, animati
da velleità artistiche e ideali social-comunisti, condividevano un appartamento
nella Milano del dopoguerra. E’ un libro che presenta molti aspetti
autobiografici, come un po’ tutti quelli scritti dalla Ortese. Ma la cosa che
più fa riflettere è che questa condizione di ristrettezza economica, descritta
nel romanzo, accompagnò sempre in vita la scrittrice, visto che morì in
solitudine con un vitalizio statale (legge Bacchelli)
che aiutava finanziariamente (forse ancora oggi) gli artisti in difficoltà.
I giovani protagonisti che
ritroviamo in questo romanzo erano arrivati a Milano dal centro-sud della
penisola, chi dalla Calabria, chi da Napoli, ma anche da Firenze, inseguendo un
desiderio di riscatto sociale e personale. Non avendo ricevuto alcun aiuto dalla
società o dalla famiglia né tantomeno dal destino, sbarcavano il lunario
scrivendo e dipingendo. E si rifugiavano in queste attività culturali non per
fare arte, come si potrebbe pensare, ma per manifestare la loro confusione e
incertezza, la loro rabbia e voglia di cambiamento all’interno di una società alle
prese con la ricostruzione post-bellica. Essi trascorrevano intere giornate a discutere
- oltre che dei loro problemi quotidiani - di politica e di avvenire e di come
sarebbe stata l’Italia e di cosa ci si attendeva dalla gioventù. Tra di loro
c’era Bettina - voce narrante del libro
e alter ego della scrittrice - i cui genitori erano emigrati a Napoli
dall’Abruzzo, la quale scriveva articoli, ma soprattutto racconti neo-realisti per
una rivista letteraria, nei quali si sforzava di rappresentare quel mondo
arcaico e mediterraneo da cui era fuggita. Il suo ideale era “lavorare per l’umanità” mediante il suo
lavoro di scrittrice; era “collaborare
alla pace e al miglioramento degli uomini”. Questo doveva essere, per lei,
il compito principale degli scrittori. Ma il libro racconta anche un amore tormentato:
quello tra la nostra protagonista, che si sentiva “proprio una nullità, almeno esteticamente” e un giovane e brillante
giornalista, Gilliat, “di una bellezza
assai dolce”. Le pagine che descrivono questa passione sono delicate e
malinconiche, così come una sottile malinconia pervade tutta la narrazione. I sofferti
sentimenti che si aggrovigliano nell’animo di Bettina generano pensieri struggenti…
“No, a sposarmi non potevo pensare, non
solo per la mia bruttezza (tale, pensavo, fosse l’insieme della mia figura), ma
anche perché non trovavo nella mia natura nulla che provasse entusiasmo per una
simile condizione. Mi pareva che là, in una casa coniugale (ammesso che mi
fossi mai sposata), mi sarei annoiata terribilmente. Mi pareva poi che con
qualsiasi uomo, dopo un po’, mi sarei annoiata. Mi pareva anzi, in un certo
senso, che non esistessero neppure uomini. Io stavo bene sola, o pensando Gill,
ascoltando la voce di Gill! Quel giornalista io lo amavo, lo amavo come nessun
altro essere al mondo, ma per me egli era un angelo, una luce, era anche un silenzioso
dolore, era tutto, ma mai lo avrei veduto come un uomo. L’idea sola che egli
avesse potuto capire questi miei pensieri su lui, mi faceva star male. No, ciò
che io desideravo più intensamente di tutto, era riavere una famiglia, tornare
bambina nella casa di mio padre, risentire la dolce voce di mia madre! Ma ciò
era impossibile, perché la mia casa era finita, e i miei genitori morti.”
Di Anna Maria Ortese ricordo la grande sensibilità verso gli animali. Dedicò loro un commosso libro, “Le Piccole Persone”, che un po', solo un po’ purtroppo, ho letto. Questa tua recensione ha risvegliato il mio interesse verso di lei. Sono affascinato dalla Milano di quegli anni. Io vivo nel suo Hinterland.
RispondiEliminaEra una donna di grande sensibilità, una scrittrice poco ascoltata, invisa all’ élite culturale del suo tempo, tant’è che subì un forte ostruzionismo dai suo colleghi scrittori, soprattutto quelli napoletani. L’ho “scoperta” leggendo “il mare non bagna Napoli”, forse il suo libro più conosciuto. E’ una scrittrice ormai dimenticata, che meriterebbe maggiore attenzione, soprattutto per la sua grande libertà di pensiero. Fai bene a rileggerla.
EliminaSe riuscissimo a focalizzarci un po di più sulla bellezza attraverso altri occhi ,come tu hai fatto con questa scrittrice,e noi con te che ti leggiamo...avremmo meno affanni su una strada in salita!
RispondiEliminaQuando intendo leggere qualcosa di serio e valido so dove fermarmi,grazie e buona giornata
L.
Come sempre, grazie per le tue belle parole di apprezzamento. E’ vero quello che dici: la bellezza ci esalta e ci migliora e se ci accostassimo a lei con maggiore frequenza, “avremmo meno affanni su una strada in salita”. La bellezza riesce a toccare le corde più intime e più sensibili dell’animo umano. Esistono luoghi che ci fanno stare bene, dove la bellezza è di casa. Ma ci sono anche luoghi che trascinano verso il basso e ci rattristano. E questo vale, naturalmente, anche per le persone che frequentiamo: talune hanno la straordinaria capacità di arricchirci, altre invece tendono a svuotare la nostra intelligenza e ci avviliscono. Ma una persona, capace di elevare il nostro animo, possiamo frequentarla anche leggendo un suo libro, cogliendo così quella bellezza in esso racchiusa, raccontata attraverso le sue parole.
EliminaCiao L., e buona giornata anche a te.
Conosco questa autrice ed hai fatto bene a "riesumare" una sua opera.
RispondiEliminaGrazie Daniele. Ciao
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