Vincitore del Premio Viareggio
nel 1977 – anno in cui fu pubblicato per la prima volta da Rizzoli – il romanzo
“Veder
l’erba dalla parte delle radici” ripercorre, a ritroso, la vita dello
scrittore, giornalista e politico piemontese Davide Lajolo (nato a
Vinchio nel 1912 e morto a Milano nel 1984). La voce narrante è quella dello
stesso autore: proviene dal letto di una clinica romana, dove era stato ricoverato
a seguito di un infarto. Oltre che una sofferta vicenda personale, il racconto
è anche un insieme di illuminanti riflessioni sulla malattia e sulla morte,
sull’amicizia e sulla famiglia, sulle passioni, sugli ideali politici e sul
potere, che generano dubbi e scalfiscono certezze, stimolando interrogativi su
quelli che sono i veri valori dell’umana esistenza.
"Di vita ne avevo vissuta tanta, e non avevo perso un giorno -
scrive l’autore nel suo libro - non avevo
mai lasciato impigrire né il sentimento né la ragione, avevo imparato a vivere,
conosciuto il mondo, avevo attraversato tutto quello che un uomo attivo può
attraversare”. Poi, all’improvviso, quell’uomo di umili origini, che aveva
dapprima abbracciato la propaganda fascista per poi allontanarsene e passare
alla lotta partigiana, che era passato da un campo di battaglia all’altro
durante la seconda guerra mondiale, che aveva conosciuto grandi condottieri di
uomini come Togliatti, Mao Tse Tung, Ciu-En-Laj, che aveva incrociato le sue
idee con i più grandi letterati del suo tempo come Cesare Pavese, Alfonso
Gatto, Carlo Levi, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Sartre e tanti altri,
che aveva portato avanti le sue battaglie politiche occupando un posto
rilevante alla Camera dei Deputati, che aveva diretto un grande giornale come
l’Unità, all’improvviso, quell’uomo di 55 anni, viene aggredito dalla malattia
e sfiorato dalla morte.
E allora, proprio quando si è in
un letto d’ospedale, quando si ha la sfortuna di avere un incontro ravvicinato
con la morte, ci si rende conto di come la vita sia un dono inestimabile, non sempre
apprezzato e custodito come si dovrebbe. La malattia ti permette di vedere il
mondo rovesciato, un modo per vederlo meglio anche negli interstizi. “Prima osservavo l’erba che spunta fuori - dice
Lajolo - ora sono riuscito a vederla
dalla parte delle radici nascoste nella terra”. Forse solo quando la vita è
legata ad un filo e la malattia ti rende nuovamente bambino, si riesce a
guardare e giudicare gli uomini e le cose con vero distacco, con quella
lucidità di pensiero che in altre occasioni viene offuscata dall’odio, dagli
opportunismi, dagli interessi, dalla cattiveria; la malattia acuisce la
sensibilità, ti trasporta in una diversa dimensione, ti eleva al di sopra delle
miserie umane.
Scorrendo le pagine del libro, si
ha come la sensazione che la paura del protagonista per la sua infermità si
mescoli all’ orrore della guerra, che lui rivive come in un sogno, quella
guerra che mandava gli uomini a morire in terre lontane per cercare chissà
quale impossibile impero. Ricordi e fantasmi tornano a fargli ripercorrere le
tappe della vita. Nel deliquio spuntano da una lontananza infinita i ricordi
del suo amato paese (Vinchio), custode geloso dei suoi affetti familiari e
della sua fanciullezza. “Come mi
incantava il mio paese...in quel letto bianco della clinica anche soltanto
nell’onda di quei ricordi tornavo a sentire il sapore dolce e amaro della mia
terra. Allora voleva dire che c’era ancora un filo di speranza: non potevo
morire”. Lo scrittore rivive i suoi innumerevoli viaggi nelle capitali di
tutto il mondo: Mosca, Pechino, Calcutta....Riaffiorano nella sua memoria gli
amici, i colleghi di lavoro, la sua attività politica. Ripensa alle migliaia di
libri letti, soffermandosi su quelli che gli avevano dato di più. E riscopre le
piccole cose dell’esistenza, con caparbietà, con forza, con ottimismo. Un libro
molto intenso, dolce e amaro nello stesso tempo, che ci parla della malattia e
della morte, per raccontarci la vita.
Trovo giusto che quando si scrive di libri non ci si limiti alle solite ultime uscite ma si guardi magari a degli esordienti che possono averci colpito ma anche a libri più vecchi ma di spessore e che quindi hanno tutto il diritto di trovare spazio nelle vetrine di blog come questo che parla di libri spesso senza porsi barriere temporali o di altro genere. Complimenti.
RispondiEliminaGrazie per le tue parole, Daniele. Devo dire che i cosiddetti "casi letterari" oppure quei libri che a volte, indegnamente, scalano le classifiche dei "più venduti" difficilmente mi attraggono. Per me un libro deve prima invecchiare... come un buon vino. :-)
EliminaVero, la malattia cambia la vita. E la morte… be’, complimenti: hai coraggio a parlare di malattia e morte in un mondo che rifiuta perfino la vecchiaia, figuriamoci nominare la morte.
RispondiEliminaHo una cartella clinica, spessa quanto il mio amato Zingarelli, che attesta la mia morte il 9 gennaio 2000. Mi scoperchiarono il cranio per scommessa, credo, e poter poi prelevare gli organi sani. Rimosso il problema, il cervello ha ripreso a pulsare e ha gabbato i luminari di Novara. O forse si è fregato da solo, non ho ancora capito.
Ho capito una cosa, però: non è importante quanto viviamo, ma come.
Anche malati.
(Ti ho sovvertito di nuovo il senso del post?)
Cara Marzia, consentimi di dire che - in questa occasione - non mi hai trovato impreparato come la prima volta. :-). E, non solo non hai "sovvertito" il senso del mio post, ma addirittura lo hai arricchito con il tuo caso personale. Sei stata sfiorata dalla morte, come il personaggio/autore del libro. E nessuno, meglio di chi ha avuto questo incontro ravvicinato, sa cos'è la vita, dopo aver assaggiato la morte. Lunga vita a te! :-)
EliminaNon ho sfiorato la morte.. ma in quanto a lunga degenza tuttora ne provo i brividi.. e in ospedale ho una suite a mio nome.. la malattia cambia le prospettive: poco ma sicuro. Ti impoverisce da un lato, e ti arricchisce da tantissimi altri. Le piccole cose di cui parla l'autore del libro che non conoscevo, si apprezzano difficilmente per descrizione o racconto altrui. Spesso per comprendere la reale importanza devi sbatterci la testa personalmente. E fartele mancare davvero. Grazie comunque per le puntuali esperienze di lettura.
RispondiEliminaLa lunga degenza in ospedale resta, comunque, una esperienza dolorosa, che può anche cambiarti la vita, o meglio, l'approccio alla vita di tutti i giorni. Un caro saluto...
EliminaMi sembrava di ricordare che il titolo alludesse a una scampata fucilazione piuttosto che alla degenza ospedaliera.
RispondiEliminaMa sono passati giusto 40 anni da quando l'ho letto e col tempo attribuiamo ai libri cose che l'autore non ha scritto:)
massimolegnani
Mi viene da pensare che, a volte, sarebbe meglio una scampata fucilazione piuttosto che una lunga degenza ospedaliera. Comunque, l'idea che il tempo possa stravolgere i ricordi delle nostre letture, la trovo davvero suggestiva...
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