giovedì 27 novembre 2025

Campane a festa

 


Le campane hanno sempre esercitato su di me un fascino particolare, carico di significati. Ho sempre amato quei rintocchi che parlano una lingua universale e hanno la capacità di chiamare a raccolta la gente nella gioia e nel dolore.

I primi ricordi significativi che ho sono legati al periodo della mia infanzia, quando le campane erano ancora una presenza familiare nel cuore della società rurale e contadina del paese in cui vivevo. I rintocchi provenivano dalla chiesa di San Nicola di Bari, non lontana dalla nostra casa, sul cui campanile in pietra svettavano – e tutt’ora svettano - due enormi campane. Devo dire che, allora, ne ero completamente affascinato. Ricordo ancora che quando la maestra delle scuole elementari ci invitava a fare un disegno, sul mio quaderno le campane non mancavano mai. Mi trasmettevano gioia. Ed ero felice di disegnarle. Le campane non diffondevano solo un suono, ma erano una voce amica riconosciuta da tutti, che avvisava i contadini nei campi che era l’ora di fermarsi un momento per consumare il pasto all’ombra di una quercia, o che era giunta l’ora di tornare nelle proprie abitazioni per il meritato riposo serale.

Le campane, simbolo della cristianità, celebravano anche le tappe civili più importanti della vita comunitaria, eventi lieti e luttuosi dalla nascita alla morte e  sancivano lo scorrere del tempo. Suonavano “a morto”, per annunciare la scomparsa di una persona del paese, e dal numero dei rintocchi si poteva intuire se si trattava di un uomo o di una donna. Era un suono lento e malinconico che faceva pensare alla precarietà dell’esistenza. Suonavano “a martello” nei casi di pericolo, una sequenza di rintocchi rapidi e insistenti che comunicavano emergenza.  E suonavano “a festa” nelle ricorrenze religiose: un suono a distesa, dal ritmo gioioso e vivace, pieno e vibrante che invitava ai festeggiamenti. Ricordo che mio nonno, ogni volta che sentiva le campane, si toglieva il cappello con deferenza e si faceva il segno della croce. Un gesto di devozione, di ringraziamento. Era una sorta di balsamo per la sua anima. Un modo per fermarsi un istante a riflettere con serenità.

Oggi nessuno fa più caso al suono di una campana, sempreché si possa ancora sentire nel frastuono delle città in cui viviamo. Alle nuove generazioni è del tutto estraneo quel fascino mistico che poteva suscitava un tempo. Il rumore, l’insensibilità, l’indifferenza, le mille distrazioni che abbiamo intorno, le variate condizioni di vita non più legate ai cicli naturali, hanno ridotto quei rintocchi a suoni privi di significato, facendo perdere alle campane quella funzione religiosa, sociale e culturale che aveva nel passato.

Ma la cosa che più mi rattrista è che in molti paesi le campane - con le loro storie secolari - stanno scomparendo, o meglio non vengono più suonate perché mancano i campanari, sostituite da registrazioni e sistemi automatizzati che simulano i rintocchi tradizionali. “Ma che fine ha fatto oggi questo oggetto così amato e popolare? – si chiede Enzo Bianchi – Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da “difensori civici”, quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico”.


mercoledì 19 novembre 2025

Architettura e felicità

 


Tutti i libri di Alain de Botton - un brillante scrittore britannico di origine svizzera – ci guidano, attraverso una scrittura colta e piacevole, verso la comprensione delle cose del vivere quotidiano, su cui non sempre ci soffermiamo con la dovuta attenzione. E, attingendo ora dal pensiero filosofico, ora dalla letteratura, ora dall’arte, quei libri ci invitano a fare delle riflessioni profonde sui tanti modi che possono rendere meno triste la nostra esistenza.

In “Architettura e felicità” (Guanda Editore) lo scrittore esplora quella sorta di connubio che esiste tra bellezza e felicità che, in qualche maniera, ha la capacità di contribuire a migliorare il benessere psico-fisico. De Botton scrive che il nostro umore è spesso influenzato dalla qualità del contesto urbano in cui viviamo, dall’edificio in cui abitiamo o dalla casa che ci accoglie dopo una giornata di lavoro e che parla di noi attraverso i mobili e gli oggetti scelti con cura, che abbelliscono gli ambienti ed esprimono la nostra identità.

L’altro giorno mi trovavo in una deliziosa piazzetta del centro storico di Roma, Piazza Sant’Ignazio, progettata nel Settecento dall’architetto Filippo Raguzzini su cui si affacciano, da un lato, cinque eleganti palazzetti dalle linee concave - che evocano una sorta di scenario teatrale - e, dall’altro, l’imponente facciata barocca dell’omonima chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a fare da palcoscenico, famosa per gli affreschi illusionistici di Andrea Pozzo. Una composizione architettonica, questa, che sembra unire sacro e profano e avvolgere la piazza in un abbraccio armonioso. Un luogo davvero suggestivo che ispira bellezza e predispone alla tranquillità dell'animo. Un luogo che mi faceva pensare che la felicità è legata soprattutto alla bellezza visiva e che sussiste un’intima affinità tra il gusto e i sentimenti profondi che guidano le nostre scelte e i nostri comportamenti. Da qui nasce poi quel senso di soddisfazione che ci rende felici. Fu Stendhal a dire che la bellezza è una promessa di felicità e che esistono tanti stili di bellezza quante visioni della felicità.

Ora io mi chiedo: se abitassi in uno di quei palazzetti rococò anziché in un anonimo edificio di un quartiere periferico di Roma, sarei forse più felice? E in linea generale, è possibile immaginare che tutti noi potremmo essere idealmente - nel bene e nel male – persone diverse in luoghi diversi? Io credo che sia difficile individuare una misura assoluta del bello che possa influire, in positivo, sulla qualità della vita delle persone. Certo, abitare in una bella casa, nel centro storico di una delle città più belle del mondo, non può che destare piacere e felicità; ma non so fino a che punto quella bella casa abbia l’effettiva capacità di  migliorare l’umore o il carattere di chi la abita. Le belle case – scrive de Botton – non hanno i vantaggi indiscutibili di un vaccino o di una ciotola di riso e per questo motivo “la bella architettura non acquisterà mai rilevanza politica e non diventerà mai una priorità, perché anche se potessimo rimodellare tutte le opere dell’edilizia umana, con sforzi e sacrifici costanti, fino a emulare piazza San Marco, anche se potessimo trascorrere il resto della nostra vita nella Villa Rotonda del Palladio, continueremmo comunque a essere spesso di cattivo umore”. Certo, può succedere che a volte una piazza con i suoi edifici seducenti catturi la nostra attenzione e faccia galoppare la nostra fantasia…”ah, se abitassi qui”, tuttavia, è innegabile che ci sono momenti in cui nemmeno il luogo più ameno sarà in grado di scacciare la nostra tristezza o la nostra misantropia. Tuttavia i nostri momenti di abbattimento, dice de Botton “offrono all’architettura e all’arte le occasioni migliori, perché è proprio in questi casi che la nostra fame delle loro qualità ideali raggiunge l’apice”.

La bella architettura – come il bello in generale – possiede un suo contenuto morale, incarna delle qualità interiori, ci dà dei consigli velati, ci invita a imitare il suo spirito. E’ ciò che dobbiamo saper cogliere osservando la bellezza, se intendiamo davvero essere migliori. E felici.



lunedì 17 novembre 2025

Il sapore della castagna

 

Mi sono imbattuto in questo articolo di Marcello Veneziani – carico di piacevoli ricordi - pubblicato sul suo blog. Devo dire che mi ci ritrovo e, pertanto, lo ripropongo qui di seguito. E'  "la dolcezza del tempo perduto".

Il sapore della castagna

di Marcello Veneziani

17 Novembre 2025

Il passato, alle volte, si nasconde dentro il guscio di una castagna. Tornando al paese d’origine, ho visto fiammeggiare al porto un’improvvisata fornace che arrostiva castagne. Mi sono avvicinato con l’avidità di un bambino e ho chiesto un “coppo” (un cartoccio) di caldarroste: me le ha incartate in un giornale, costavano solo un euro, contro i cinque, dieci delle grandi città, dove te le confezionano però in due appositi vani, quello dei frutti e quello per le bucce. Ma in paese è tutto più primitivo e naïve. Erano piccole quelle castagne, non come i marroni delle grandi città, non facevano bella figura; ma avevano il sapore e il profumo verace di un tempo, qualcosa che non ricordavo più da decenni.

Il sapore di una castagna è la versione campestre della madeleine di Marcel Proust: riattiva i ricordi e riannoda i lacci della memoria. Da una piccola porta si accede a un immenso passato.

Un mondo, a lungo dimenticato, si è riaperto d’improvviso mentre sbucciavo le castagne bollenti, inalavo odori di un tempo e addentavo le annerite e indorate delizie. Un’isola d’infanzia in mezzo al mare della senilità.

Ho rivisto allora, morso dopo morso, i banchi di legno grezzo dei primi giorni di scuola, in prima elementare, con i calamai e le sedioline incorporate, piccole e dure. E i nostri grembiuli, col fiocco azzurro e il colletto bianco, ho sentito l’odore del gesso che stride sulla lavagna e ho rivisto il cassino, di cui avevo scordato l’aspetto e pure il nome. La prima poesia che imparammo a memoria nei primi giorni di scuola era dedicata proprio alla castagna, regina dell’autunno. “Cotta, bruciata e ballotta, attenti che scotta”, l’insidia del riccio che la ricopre, il gusto del frutto, la gravidanza del castagnaccio. Fu lei, la castagna, a iniziarci alla poesia, fu il primitivo rudimento di letteratura. Era autunno, e il libro di lettura seguiva in quel tempo il corso naturale delle stagioni.

Poi dopo la scuola tornavo a casa, era pomeriggio e scendeva il buio vespertino, calavano le prime umidità autunnali, e i primi freddi. Era un po’ triste la strada di casa a quell’ora d’autunno, soprattutto quando era bagnata di pioggerelle recenti. Ma quando rientravo a casa c’era aria di festa e calore di vita: i miei avevano tirato fuori quel tegame nero coi buchi, che aveva ai miei occhi un aspetto giocoso, con cui si arrostivano le castagne. La fiamma le abbronzava e si sentiva nell’aria un odore misto a bruciato. Per essere ammesse in padella le castagne erano segnate da una croce che ne spaccava la buccia; mi raccomando il taglio, dicevano, altrimenti scoppiano. Quella breccia nel guscio sarebbe poi diventato l’appiglio per sbucciarle, appena tolte dal fuoco con le dita scottate; l’impazienza di sbucciarle e mangiarle superava il timore di ustionarsi. Alle castagne arrostite, non so perché, ci pensava mio padre, di solito inoperoso in cucina; quando invece le castagne erano bollite in pentola, sia nella versione sbucciata e guarnita col lauro (l’alloro), sia nella versione integrale, non spogliata, era compito di mia madre. Le castagne ne uscivano di tutti i colori: giallo-nere se arrostite, grigio-rosse se bollite senza buccia, bianco-avorio se preservate ancora nella loro buccia marrone. Erano i grandi, prometeici, a tirare le castagne dal fuoco.

Il tempo delle castagne è per me associato a una piccola preistoria domestica, ancora priva di televisore e di altre comodità moderne: da qui l’associazione di idee tra le castagne e il tempo perduto. In alcune case le castagne arrostivano sui bracieri ed erano perciò associate ai primi freddi nell’era antica, che precede i termosifoni e perfino le stufe.

In quel tempo, così come oggi, amavo l’estate con tutta l’anima e il corpo, mi riempiva gli occhi di vita e m’intristiva l’autunno, le giornate più corte e non più vissute all’aperto, i pomeriggi a casa, tra i compiti, i giochi e la tristezza del clima, il mese dei morti e dei vestiti pesanti. L’unica vera, scoppiettante gioia domestica di quella ritirata autunnale erano le castagne sul fuoco; erano la consolazione della stagione. Si creava un’atmosfera speciale in quei momenti e in quella catena di smontaggio famigliare nel passaggio delle castagne dalla padella alle mani bambine e dalle mani alla bocca golosa. Vita semplice, di poche pretese, addolcita da piccole delizie della natura.

Associo quei momenti pomeridiani delle castagne al cerchio di luce disegnato da un abat-jour, circondato dall’ombra della stanza e dall’imbrunire che s’intravedeva dal balcone e dalle finestre. La castagna era un fuori programma, non la mangiavi a pranzo, a cena, a colazione, ma fuori dai pasti; era una piccola festa, una dolce pausa offerta dalla natura, un frutto temprato dal fuoco.

La castagna mi pareva la metafora cristiana della vita: appena raccolta è respingente e può pungerti, ma se riesci a togliere il riccio accedi al frutto, passando però da altre due bucce: quella più dura, color mogano lucido, come un vestito e poi la vestaglia più esile, come una maglieria intima che copre il corpo nudo della castagna. Solo dopo aver sbucciato i tre strati accedi al frutto; sarà il fuoco a renderlo maturo per i nostri appetiti. Nulla ti è dato in natura senza la fatica di raccogliere, di sgusciare senza ferirti e poi sbucciare. Non so se già esiste la castagna ogm, o se l’Intelligenza Artificiale produrrà la Castagna Artificiale. Ma nella castagna vedo occhieggiare la natura e la favola, il mondo arcaico e l’infanzia perduta e ritrovata per poco.

(Panorama n.47)


venerdì 7 novembre 2025

La dolcezza del tempo perduto

 



Quando penso al passato – al mio passato vissuto in un piccolo paese del sud – il sentimento che prevale in me è una profonda dolcezza per quel mondo scomparso e per quelle persone care che non ci sono più. Naturalmente, con questo, non voglio rimpiangere quel tempo che a volte era anche molto duro e oggi sarebbe insostenibile.

Era un universo, quello in cui ho vissuto la mia infanzia e poi la mia adolescenza, che aveva una sua dimensione comunitaria, umana, che privilegiava i legami forti e esercitava la solidarietà, un universo fatto di cose semplici ed essenziali, di contadini e … di nonni. Ma era anche un universo fatto di fatiche e di sacrifici, di arretratezze economiche e sociali e di brutture dalle quali si avvertiva forte il desiderio di evadere. Un microcosmo che, in qualche maniera, ti proteggeva in un caldo abbraccio e non ti faceva sentire mai solo, rispetto al mondo globalizzato di oggi che ha sostituito le interazioni reali con quelle mediate dagli strumenti tecnologici.

Non era un mondo racchiuso in uno smartphone, quel mondo. Esisteva una comunità con i suoi riti; esisteva il paese con i suoi silenzi e i suoi rumori, come quel ritmo scandito dal martello di un fabbro sull’incudine: “il suono più esaltante che si possa sentire” ebbe a dire una grande scrittrice del passato. C’erano i vecchi e i bambini: tanti vecchi e tanti bambini; c’erano i cugini, i nonni che vivevano – senza badante - nella stessa casa e poi i vicini che entravano e uscivano dalle porte di casa sempre aperte; c’era quell’aria salubre che io riconoscevo dall’odore di erba fresca appena tagliata. E devo dire che c’era sempre un velo di malinconia nei brevi momenti di felicità. Una felicità allo stato puro. Ma non era il paradiso sulla terra, quel passato. No! Era un mondo povero, difficile di cui non ho nostalgia. Eppure, quando penso al tempo che scorre, io penso a quel tempo che sembrava eterno e immutabile.

Perché ne scrivo? Perché mi piace ritornare con la mente a quegli anni lontani? Semplicemente perché il ricordo mi fa stare bene. Mi infonde serenità. Mi restituisce le radici, l’infanzia, la spensieratezza di un’età. Mi riporta nel luogo dove tutto è cominciato. Mi fa ritrovare il volto delle persone care che non ci sono più. Mi aiuta a non perdere la sensibilità e a recuperare il senso antico di una stagione della vita che non può più ritornare. Conservare la memoria è come costruire un ponte ideale tra passato e presente, necessario per poter affrontare il futuro.