Le campane hanno sempre
esercitato su di me un fascino particolare, carico di significati. Ho sempre
amato quei rintocchi che parlano una lingua universale e hanno la capacità di
chiamare a raccolta la gente nella gioia e nel dolore.
I primi ricordi significativi
che ho sono legati al periodo della mia infanzia, quando le campane erano
ancora una presenza familiare nel cuore della società rurale e contadina del
paese in cui vivevo. I rintocchi provenivano dalla chiesa di San Nicola di
Bari, non lontana dalla nostra casa, sul cui campanile in pietra svettavano – e
tutt’ora svettano - due enormi campane. Devo dire che, allora, ne ero completamente
affascinato. Ricordo ancora che quando la maestra delle scuole elementari ci
invitava a fare un disegno, sul mio quaderno le campane non mancavano mai. Mi
trasmettevano gioia. Ed ero felice di disegnarle. Le campane non diffondevano
solo un suono, ma erano una voce amica riconosciuta da tutti, che avvisava i
contadini nei campi che era l’ora di fermarsi un momento per consumare il pasto
all’ombra di una quercia, o che era giunta l’ora di tornare nelle proprie abitazioni
per il meritato riposo serale.
Le campane, simbolo
della cristianità, celebravano anche le tappe civili più importanti della vita
comunitaria, eventi lieti e luttuosi dalla nascita alla morte e sancivano lo scorrere del tempo. Suonavano “a
morto”, per annunciare la scomparsa di una persona del paese, e dal numero dei
rintocchi si poteva intuire se si trattava di un uomo o di una donna. Era un
suono lento e malinconico che faceva pensare alla precarietà dell’esistenza. Suonavano
“a martello” nei casi di pericolo, una sequenza di rintocchi rapidi e
insistenti che comunicavano emergenza. E
suonavano “a festa” nelle ricorrenze religiose: un suono a distesa, dal ritmo gioioso
e vivace, pieno e vibrante che invitava ai festeggiamenti. Ricordo che mio
nonno, ogni volta che sentiva le campane, si toglieva il cappello con deferenza
e si faceva il segno della croce. Un gesto di devozione, di ringraziamento. Era
una sorta di balsamo per la sua anima. Un modo per fermarsi un istante a
riflettere con serenità.
Oggi nessuno fa più caso
al suono di una campana, sempreché si possa ancora sentire nel frastuono delle
città in cui viviamo. Alle nuove generazioni è del tutto estraneo quel fascino
mistico che poteva suscitava un tempo. Il rumore, l’insensibilità, l’indifferenza,
le mille distrazioni che abbiamo intorno, le variate condizioni di vita non più
legate ai cicli naturali, hanno ridotto quei rintocchi a suoni privi di
significato, facendo perdere alle campane quella funzione religiosa, sociale e
culturale che aveva nel passato.
Ma la cosa che più mi
rattrista è che in molti paesi le campane - con le loro storie secolari -
stanno scomparendo, o meglio non vengono più suonate perché mancano i
campanari, sostituite da registrazioni e sistemi automatizzati che simulano i rintocchi
tradizionali. “Ma che fine ha fatto oggi questo oggetto così amato e
popolare? – si chiede Enzo Bianchi – Povere campane: da linguaggio
comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da “difensori civici”,
quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate
sul banco degli imputati per inquinamento acustico”.

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