Sono appena sceso da un treno
alta velocità “Frecciargento” di Trenitalia: rientro nella Capitale dopo molti
giorni trascorsi nella mia casetta al paese. Il mio buen retiro. Ad
accogliermi (si fa per dire) è la stazione Termini, “luogo non luogo” per
antonomasia secondo l’antropologo francese Marc Augè, che ha coniato questo
neologismo valido anche per gli aeroporti, gli autogrill e altri luoghi simili.
L’impatto, per uno che viene da un paesello dove il tempo sembra essersi
fermato e dove non esistono assembramenti è, a dir poco, traumatizzante. E devo
dire che sebbene io sia vaccinato a questi contrasti, ogni volta avverto la stessa
sensazione di straniamento.
La stazione Termini è diventata
una sorta di centro commerciale dove, però, arrivano e da cui partono anche i
treni. E’ un luogo nel quale manca ogni riferimento storico e identitario, uno
spazio di passaggio per migliaia di individui che si incrociano senza mai
entrare in relazione tra di loro; un luogo di consumo, da cui si parte per
assolvere quell’intimo desiderio personale – ma anche quell’obbligo sociale (se
non fai una settimana alle Seychelles non sei nessuno) - del viaggiare, sempre
più orientato dalle riviste specializzate e dalle agenzie turistiche, che
consigliano mete sollecitando desideri e sogni di evasione.
Per motivi diversi, di svago o
di necessità, non riusciamo e forse non vogliamo più stare fermi nello stesso posto.
Mi vengono in mente le parole di Blaise Pascal che riecheggiano nei suoi Pensieri
e che sembrano rivolgersi all’uomo d’oggi, sempre più smanioso di partire, di
andare “…tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non
saper restare tranquilli in una stanza…per questo gli uomini amano tanto il
rumore e il trambusto…per questo il piacere della solitudine è una cosa
incomprensibile”. Dobbiamo muoverci, viaggiare, spostarci a velocità
supersonica da un punto all’altro della Terra con tutte le conseguenze che ciò
comporta: inquinamento ambientale, distruzione del territorio e…coronavirus,
diffuso proprio per via della vita frenetica e convulsa che tutti noi conduciamo.
La condizione del vivere non è più legata intimamente al territorio. Il
viaggiare, la fusione culturale, la facilità di muoversi, la creazione di
grandi spazi urbanizzati e anonimi e non classificabili uguali gli uni agli
altri, hanno finito con il produrre una separazione tra l’uomo e il territorio in
cui abita, uno scollamento irreparabile tra l’uomo e la natura.
Osservo quella moltitudine
assiepata nella stazione Termini (di cui anch’io faccio parte), munita di trolley simili a vagoni ferroviari, brulicante
e rumorosa come un alveare e mi sento isolato. Spaesato. E’ la solitudine che
nasce non dall’essere soli ma dall’essere tanti in un luogo non luogo che
avvolge tutti senza riferimenti identitari, circondati da immensi cartelloni
pubblicitari e decine di monitor che proiettano, senza sosta, immagini di un
mondo irreale, mentre i rumori di fondo, assordanti, disorientano e
avviliscono. E’ incredibile come a volte l’impatto con un luogo possa farti
piombare, all’improvviso, in una sorta di girone infernale e farti sentire a
disagio. Avevo lasciato alle spalle altri paesaggi, altri riferimenti: il
profilo di una collina, un bosco al limitare di una vigna, i rintocchi di una
campana, un ritmo di vita lento e umano. E poi il silenzio, il grande assente
in un luogo come la stazione Termini di Roma. Mi guardo in giro, ma non vedo
smarrimenti di sorta, tutti sembrano sicuri e tranquilli, a proprio agio, indifferenti
al rumore, alla frenesia che serpeggia nel luogo. Solo due persone anziane, dall’aria
preoccupata – probabilmente marito e moglie – con la loro valigetta d’altri
tempi si guardano intorno smarriti cercando
di trovare una via d’uscita in quella babele. Mi si avvicinano ansiosi come
due pesci fuor d’acqua – forse perché sono l’unico che non sta al cellulare e
non corre in maniera forsennata - per chiedermi del treno per Roccasecca. Li
osservo con dolcezza e mi domando come possano trovarsi lì, da soli, in quella
bolgia che scalpita. E mentre li indirizzo verso il treno per Roccasecca - la
loro salvezza – mi ringraziano riconoscenti e mi dicono che il mondo a cui
appartengono non esiste più. Loro sono gli ultimi superstiti. Queste parole mi
colpiscono. E se, invece, fossimo tutti noi dei superstiti, in questo mondo?
Mah stavo per darti il ben rientrato,ma mi son trattenuta :))
RispondiEliminaIo sono sempre più allergica a queste descrizioni cosi reali e vere,e credo che il "rumore"sia ciò che ormai subiamo tutti in un modo o nell'altro,in tutte le salse possibili, ... più rumore c'è , meno viviamo e più sopravviviamo.
Qualcuno disse :"chi tollera il rumore è già un cadavere"...poi c'è chi esce dal silenzio come superstite che riconosce altri superstiti :)
L.
Bentrovata L. :)
EliminaMeglio superstiti che morti (sorrido). Qualcun altro sosteneva (era Schopenhauer) che la quantità di rumore che una persona è in grado di sopportare, senza soffrirne, sta in rapporto inversamente proporzionale con le sue capacità intellettuali. E diceva ancora che saremo completamente civilizzati solo quando anche le orecchie saranno protette dalla legge.
Un saluto
Il mio buen retiro è una sorta di carica batteria. Quando sono completamente scarico mi rifugioi lì, lontano dalla civiltà e dai rumori della modernità. Poi ritorno, passando per Roma Termini...in attesa di ripartire di nuovo. Tutto questo, per legittima difesa :))
RispondiEliminaPensa che in gioventù la Stazione Termini di Roma era luogo di incontro e di escursioni avventurose, una maniera di coltivare sogni; li andavi a vedere da vicino quei treni magari mai presi prima se non in rare occasioni, sognavi viaggi e paesaggi, scenari di velocità misti a futuro futurista. C'era solo poesia e romanticismo in un luogo quasi magico, ordinato, pulito, tranquillo quasi, a dispetto comunque dei fermenti delle partenze e dei batticuore degli arrivi.
RispondiEliminaOggi è un vergognoso biglietto da visita formato da caos, povertà, sporcizia, disorganizzazione, pericolo.. perché devi stare attento a come ti muove e a chi ti si muove attorno.
Posso ammirare giusto un alta velocità che mi porti via. Solo andata però.
Me la ricordo bene la stazione Termini che tu racconti. Ma oggi la poesia, il romanticismo e la magia non sono più di moda. Ogni luogo deve essere un centro commerciale. Quei cartelloni pubblicitari grandi quanto un campo di calcio che tappezzano tutti gli spazi della stazione sono osceni: un vero pugno in faccia.
EliminaTermini è una bolgia infernale, soprattutto attorno, calamita per ogni sorta di disadattato sociale
RispondiEliminaE' vero. C'è incuria e degrado intorno alla stazione Termini e per questo non è certamente il luogo più sicuro della Capitale. Brillano solo gli esercizi commerciali.
Eliminasignificativi i due vecchietti che vogliono tornare al loro rifugio, via dalla pazza folla.
RispondiEliminaa ben vedere il mondo ancora gira anche grazie a tipi come loro che non si omologano al disastro.
ml
Proprio così. Hanno tirato un sospiro di sollievo quando hanno visto il treno. E probabilmente avranno pensato: ma come fanno questi qui a vivere in una città come Roma!
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