Se ci soffermassimo a riflettere,
con la dovuta attenzione, sui flussi di parole che inondano quotidianamente la
nostra esistenza, capiremmo che il mondo non ha assolutamente bisogno delle
nostre parole scritte. Sono già troppe quelle esistenti e niente possiamo
aggiungere su ciò che è stato già detto da persone molto più autorevoli di noi,
del presente e del passato. E’ come quando si entra in una grande libreria dove
sono assiepati migliaia e migliaia di testi: ma chi mai dovrebbe comprare e
leggere un nostro libro qualora decidessimo di scriverlo? Eppure, tutto questo
non ci spaventa, non ci scoraggia e non ci fa desistere da questa attività che
resta, nonostante tutto, tra le più nobili dell’animo umano. Mai come in questa
nostra epoca ci siamo affidati in maniera così ostinata alla parola scritta,
invogliati soprattutto dagli strumenti on line messi a disposizione dalla
tecnica.
“Ho scritto poco – amava ripetere
Cristina Campo – e mi piacerebbe aver scritto meno”. Un modo per attestare che
la scrittura è una cosa seria che implica responsabilità civile, fatica,
rispetto. E forse nessuna come lei rispettava le parole almeno quanto noi, sempre
più spesso, le maltrattiamo. E poi aggiungeva: “se qualche volta scrivo è perché
certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro.
Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e
la mano – come per osmosi”. Ma esiste questa fusione anche nel nostro scrivere?
Le parole che usiamo hanno la forza di penetrare in noi e rimanerci? Diciamocelo:
oggi usiamo la scrittura soprattutto per interagire con gli altri, quasi in
tempo reale, attraverso i social. E’ un modo di scrivere istantaneo,
frammentato - come il parlare – che non ha nulla a che spartire con un pensiero
ponderato, riflessivo e profondo. Insomma, una scrittura liquida, scivolosa,
che non lascia alcuna traccia importante né in chi scrive e tanto meno in chi
legge.
Pare che il blog, invece, sia una forma espressiva superiore
e di nicchia che ricorda - con i suoi testi brevi ed equilibrati - il diario o la
lettera di antica memoria (anche se oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una
lettera come si faceva un tempo). Ma se il diario e la lettera sono strumenti
privati che si rivolgono ad un solo destinatario, ad un solo lettore – anche se
poi alcuni di questi testi sono diventati di dominio pubblico, epistolari
famosi di alto valore letterario - il
post di un blog è indirizzato, invece, a tutti coloro che vi si imbattono per
caso. E’ di tutti e di nessuno. Ma allora, se non ho un destinatario preciso e
circoscritto, perché sento questo bisogno di scrivere e diffondere il mio
messaggio in rete? E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito dove ognuno
esprimerebbe la propria motivazione.
Io penso che tutte le
convinzioni che spingono una persona a scrivere siano accomunate da un solo
sentimento: la nostra vanità. Se fosse una merce in vendita, la vanità,
andrebbe a ruba nonostante ne siamo tutti muniti, sia pure in diversa misura. E’
inutile girarci intorno: scrivere è un atto di vanità; è voler essere letti. Se
nessuno ci legge non esistiamo. E noi vogliamo esserci in questo mondo. Vogliamo
lasciare una traccia. E’ un sentimento così radicato nell’animo umano che
ciascuno di noi desidera, in qualche maniera, essere ammirato e applaudito per ciò
che scrive. Non metteremmo in rete un post, per il solo piacere di scrivere, se
non avessimo la certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà: fosse anche una
sola persona. Ed è proprio questa persona sconosciuta la molla che ci spinge a
farlo. Altrimenti basterebbe un quaderno su cui appuntare i nostri pensieri. Ma
parlare ad una folla è molto più gratificante che parlare solo a sé stessi. Ti
fa sentire importante. Ti fa immaginare che c’è qualcuno nella blogosfera che
sta lì in attesa del tuo ultimo post.
Diceva una volta un filosofo che non affronteremmo un viaggio
in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare.
Scriviamo per gli altri, a cui vogliamo sempre insegnare qualcosa, ma non abbiamo
nessuna intenzione di apprendere nulla da loro. Siamo tanto sensibili alle
opinioni favorevoli che vengono espresse su di noi, quanto poco interessati a
quello che gli altri dicono di sé stessi. In altre parole – miei cari amici
blogger - la vanità degli altri proprio non la sopportiamo, attratti come siamo
dalla nostra.