Quando finisco di leggere un romanzo di un grande scrittore mi
piace frugare – diciamo così - tra le pagine di qualche altro suo scritto precedente
o successivo, alla ricerca di un possibile collegamento. E devo dire che questa
sorta di connessione la ritrovo quasi sempre, perché i libri dello stesso
autore sono legati tra loro dalla medesima impronta stilistica, o meglio da
un filo narrativo che li rende, in qualche maniera, riconoscibili. Tali sono i libri
di Cesare Pavese. Questo per dire che, dopo aver letto “Prima che il gallo
canti” – di cui ho parlato pochi giorni fa - ho avvertito la necessità di addentrarmi tra
le sue lettere scritte nel corso della sua vita, che spesso anticipano temi e
personaggi dei suoi libri e si configurano come un diario pubblico, una sorta
di tormentato testamento spirituale, insieme al “Mestiere di vivere”.
Leggendo le missive scritte da
Pavese ai suoi amici e conoscenti, alla sorella, ai colleghi, alle donne di cui
si era innamorato, si può seguire, passo dopo passo, la sua formazione
professionale, i suoi primi successi letterari, ma anche le sue vicende più
intime, le sue inquietudini, la solitudine che mai lo abbandonerà, nonché il
doloroso evolversi dei suoi burrascosi sentimenti. Diversamente da quel suo personaggio
(Clelia) del romanzo “Tra donne sole”, che dice di non riuscire a leggere un
libro con risvolti autobiografici perché ha l’impressione di aprire le lettere
degli altri e mettere il naso nei loro affari, io sono un cultore degli
epistolari: mi piace “mettere il naso” tra le carte private dei grandi scrittori
perché credo sia l’unico modo per conoscerli meglio. E il carteggio tenuto da
Pavese, che ha uno straordinario valore letterario, ne costituisce la testimonianza.
Il primo a dirlo fu Mario Sturani, un suo amico: considerava le sue
lettere “dei veri capolavori letterari, delle poesie liriche, delle
sinfonie, dei miracoli”.
La cosa che più colpisce,
leggendole, è quel suo “vizio assurdo” di
auto-annientamento, quel pensiero fisso di volersi suicidare che sempre lo
tormentava. Aveva solo 19 anni quando, in una drammatica poesia inviata proprio
al suo amico Sturani, scritta “alle tre del mattino, dopo una serata
errabonda e tre ore di crisi meditativa nella mia stanza”, affiora in
Pavese - per la prima volta - la tentazione di farla finita con una pistola:
immaginava “il sussulto tremendo” dopo averla appoggiata contro una
tempia “per spaccarmi il cervello”. E ancora al suo amico di liceo
Tullio Pinelli scriveva nel 1927: “Oh, un giorno ne avrò bene il coraggio!
Lo vagheggio di ora in ora tremando. E’ il mio ultimo conforto. Scrivimi
qualcosa, voglio sentire sentire, son troppo solo, mi smarrisco”.
Dalle lettere, Pavese appare
come un uomo tormentato e schivo che non si sente per niente appagato e felice.
E soffre, per i suoi “desideri più lancinanti” o per le sue “disperazioni
più vili”. In una lettera indirizzata al suo professore di Liceo Augusto
Monti, si lamenta che non ha niente da fare e conduce “un’esistenza
vilissima e ormai m’accorgo di non saper più uscire dal pantano della mia
anima”. Parlando di arte, dice che “è la più alta delle attività umane e
porta l’uomo più di ogni altra cosa vicino alla divinità”. Però, prima di
giungere al capolavoro, l’artista subisce una sorta di “maceramento dello
spirito” che finisce per logorarlo. “Per vivere – scrive sempre a
Monti – bisogna aver forza e capire, saper scegliere. Io non ho mai saputo
far questo. Come non capisco niente di politica così di tutti gli altri
tramenii della vita”. Le lettere alla sorella Maria mostrano un Pavese più disteso,
più dolce, più ironico, nonostante le sue avversità. Si trova nelle Carceri
Nuove di Torino quando le scrive il 18 maggio 1935: “Qui si sta come in
convento e sono tutti gentilissimi, meno la porta. Quando uscirò, saprò che
cosa pensare della mia vocazione religiosa: se posso decidermi a fare il frate
o no (…) In questa prigione non manca niente. C’è persino un ragno che conto di
addomesticare, e, se Dio vuole che ci resti, quest’estate acchiappargli le
mosche. Fra poco coltiverò una pianticella sul davanzale”.
Pavese viene poi mandato al
confino a Brancaleone Calabro. Sempre alla sorella scrive il 9 agosto 1935: “Il
viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata una impresa di alto
turismo. Ormai il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso”. E
all’amico Sturani, sempre da Brancaleone: “Ho quindi comperato una bella
corda, l’ho adattata a nodo scorsoio, e tutte le mattine la insapono per
tenerla pronta”. Ma subito dopo precisa: “Mi serve a guadagnarmi un po'
di carne, quando i vicini mi chiameranno a prender parte all’impiccagione del
maiale, che sta ora ingrassando in rigorosa castità”. E sempre a Sturani,
tra il serio e il faceto: “qui sto bene, mi trattano con ogni civiltà, sono
pagato per non far niente, realizzo insomma il mio ideale di vita”. Pavese
vive tra i libri e parla spesso di libri “che sono come i figli…si conoscono
solo una volta fatti, quando insomma non si è più a tempo a farli meglio.
Occorrerà se si vuole riparare farne degli altri”. E, naturalmente, non
mancano le lettere, a volte struggenti, a donne amate o solo vagheggiate: ad
una ragazza che si firma Dinah “Noi non ci amiamo, Dinah. E nemmeno lo
diciamo a noi stessi. Ci cerchiamo, così, per simpatia…”; a Milly, una
famosa soubrette “Io la conosco, signorina, la conosco, ripeto, ma così, di
sfuggita, l’ho seguita, l’ho osservata a lungo, talvolta, ma senza mai osare
avvicinarla…Io non sono che un comunissimo studente di 19 anni”; a Fernanda
Pivano “non ci si uccide per amore di una donna” le scriveva tormentato
dalla sua relazione delicata e complessa; a Pierina: “Posso dirti, amore, che
non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi
ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna
rivolge a un uomo?”; a Constance Dowling, attrice americana con cui ebbe un
rapido flirt: “Ti amo…cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore
e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco
nella mia vita, e così male, che è come nuova per me”. La sua ultima
lettera la scrive a Davide Lajolo, la sera del 25 agosto 1950: “Ora non
scriverò più! Con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle
Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti”. Nella notte tra il 27 e
28 agosto 1950, Pavese si uccide in una camera d’albergo di Torino inghiottendo
numerose bustine di sonnifero. Il suo ultimo messaggio sul frontespizio de “I
dialoghi con Leucò”: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non
fate molti pettegolezzi”
Voglio credere che chi trovi anche la forza, di suicidarsi, ancor più menti così creative, abbia un mondo infernale che sconvolga loro cuore e testa del quale noi comuni non approcciamo che una minima punta d'iceberg. Ricordo Hemingway che chiedeva perché si fosse ucciso Pavese, appena qualche settimana prima di spararsi.
RispondiElimina“Bene visse colui che poté morire come volle.” Publilio Siro
Eliminaquindi il suicidio di Pavese non è conseguenza di un momento di depressione per una delusione d'amore, ma è la realizzazione un'idea che lo aveva sempre accompagnato nella vita.
RispondiEliminaml
Sembrerebbe proprio di si: un'idea corteggiata da Pavese per tutta la vita e messa in pratica a 42 anni.
Elimina" In una lettera indirizzata al suo professore di Liceo Augusto Monti, si lamenta che non ha niente da fare e conduce “un’esistenza vilissima e ormai m’accorgo di non saper più uscire dal pantano della mia anima”. Parlando di arte, dice che “è la più alta delle attività umane e porta l’uomo più di ogni altra cosa vicino alla divinità"
RispondiEliminaMi fanno molto riflettere queste sue righe e evidentemente la bellezza da sola non gli è bastata a riempire quel vuoto che provava per mancanza di amore.Lo si evince dai suoi scritti a seguire che riporti.
Spesso leggo di forza e di coraggio verso chi si suicida,io ho imparato ad acquisire tale forza e coraggio per rimanere in silenzio.
Buona domenica:)
Si, neanche la bellezza e l'arte bastano per colmare certi vuoti dell'anima. Lui continua a vivere nei libri che ci ha lasciato.
EliminaCiao L. e buona domenica a te