Ci sono alcuni libri che si possono sfogliare e leggere a caso,
senza iniziare in maniera sistematica dalla prima pagina. Io li chiamo “libri
da comodino”, libri sempre a portata di mano, che hanno una sorta di potere taumaturgico
di suggerire risposte e far sorgere domande, da leggere magari prima di andare
a letto, la sera. Sono libri che non vanno
letti come un romanzo perché non hanno né un inizio né una fine; sono libri che
si sfogliano con lentezza quando ti assale un’inquietudine, quando la
malinconia fatica ad andare via. Sono libri senza tempo, scritti nel passato ma
che hanno la freschezza del presente.
I miei libri da comodino sono gli “Essais” (o Saggi) di
Montaigne; le “Lettere a Lucilio” di Seneca; e “Il libro dell’inquietudine” di
Pessoa. Non li abbandono mai, leggo una pagina di qua, un pensiero di là,
sottolineo, annoto, rubo qualche citazione per rafforzare i miei modesti
scritti su questo blog, o per “esprimere meglio me stesso” come direbbe
Montaigne: insomma, una lettura senza fine che prendo e lascio quando mi piace
perché tra una pagina e l’altra non c’è alcun legame.
Michel de Montaigne (1533 – 1592) è un filosofo che mi ha sempre affascinato, da
quando comprai i “Saggi” pubblicati in due volumi da Adelphi
(traduzione di Fausta Garavini - pagg. 1588). Chi non ha mai pensato, almeno
una volta nella propria vita, di lasciare tutto e rifugiarsi in un posto
lontano dalle miserie umane? E’ proprio quello che fece Michel de Montaigne,
verso i quarant’anni: si ritirò nella torre del suo castello nel sudovest della
Francia a meditare, a leggere e a scrivere, circondato da una ricca biblioteca
che conteneva un migliaio di testi. Possono sembrare pochi, ma in quell’epoca
non esisteva tutta la spazzatura cartacea che oggi ci sommerge. Aveva Plutarco,
Lucrezio, Terenzio, Cicerone, Cesare, Plotino; aveva le opere di Erasmo, di
Sofocle, di Platone, di Seneca; aveva il libro dell’Ecclesiaste e tanti altri.
Preferiva i testi antichi che gli sembravano “più succosi e vigorosi” di quelli
del suo tempo. Diceva “non amo che i libri o piacevoli e facili, che mi
accarezzano, o quelli che mi consolano e mi consigliano a regolare la mia vita
e la mia morte”. Erano, insomma, i suoi libri da comodino. Da queste opere egli
estrasse cinquantasette sentenze e le fece iscrivere sulle travi del soffitto
affinché lo proteggessero e lo accompagnassero nella sua solitudine e nella
stesura dei suoi “Saggi”, un libro immenso che arricchiva giorno dopo giorno
con i pensieri dei suoi autori prediletti. Leggeva Plutarco, leggeva Seneca,
leggeva Lucrezio e li “saccheggiava”, piluccava una frase a questo, una
citazione a quell’altro creando, con la sua straordinaria prosa, degli incastri
letterari ricchi e deliziosi, ironici e amabili. “Le api saccheggiano fiori
qua e là – scriveva – ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro; non è
più timo né maggiorana” . Non citava gli altri se non per esprimere meglio
il suo pensiero. Si compiaceva del fatto che le sue opinioni avessero l’onore
di corrispondere spesso a quelle dei grandi dell’antichità. Fino ad allora,
forse nessuno scrittore aveva parlato e scritto di sé stesso, mettendosi a nudo
davanti ai propri lettori con parole le più esplicite possibili, scrivendo
della sua anima e soprattutto del suo corpo. E questo ci consente di giudicare
più accettabili quegli aspetti di noi che a volte non abbiamo il coraggio di
raccontare, ma non per questo non sono parti integranti della nostra esistenza.
“Tante cose che non vorrei dire a nessuno, le dico al pubblico, e per quanto
riguarda le mie più segrete convinzioni o idee rimando a una bottega di libraio
i miei amici più fedeli”.
A Montaigne interessava l’uomo nella sua interezza. E attraverso
l’autoritratto che troviamo nei Saggi, quest’uomo ce lo restituisce nella sua
complessa, variegata e contraddittoria immagine. Perché ogni singolo individuo
porta in sé una traccia dell’intera varietà della specie umana. “Io che mi
spio più da vicino – scrive nei Saggi – che ho gli occhi incessantemente
fissi su me stesso, come chi non ha molto da fare altrove, a malapena oserei
dire quanta vanità e debolezza trovo in me (…) Se la salute mi ride e la
serenità di una bella giornata, eccomi amabile; se ho un callo che mi fa dolere
l’alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile (…) ora mi va di far
tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà
penoso”. Dicendo
queste cose Montaigne difendeva la sua naturalezza, la sua sincerità,
caratteristiche che apprezzava in ogni essere umano. Nonostante si fosse
allontanato dal consorzio umano, era attratto comunque dall’uomo per le stesse
ragioni per cui egli lo scherniva e lo punzecchiava. Quell’uomo incoerente e
inaffidabile, che non andava preso troppo sul serio, composto da tante piccole parti,
come un puzzle, che non sempre stanno al posto giusto. Nella sua grande
biblioteca, sotto la protezione delle sue sentenze scritte sulle travi del
soffitto di quella torre, passava il suo tempo senza progetti futuri, ora
sfogliando un libro, ora un altro, ora scrivendo ora passeggiando, ora
osservando il panorama dalla sua alta postazione. Entrando e uscendo dal suo
libro, i Saggi, il testamento che ci ha lasciato.
Dai “Saggi” di Montaigne alle “Lettere a Lucilio”
di Seneca il passo – per me – è breve, anche se vado indietro di circa
quindici secoli; è un libro di straordinaria attualità e di una semplicità
tanto profonda quanto disarmante. Anche qui è sempre l’uomo al centro della
narrazione, con i suoi vizi e le sue virtù, i suoi entusiasmi e le sue paure, i
suoi desideri e le sue illusioni. Sono, questi, i mali dell’anima che derivano
dalla sua incapacità di comprenderli e dare loro ascolto. “Se vorrai star
bene – scrive Seneca – cura soprattutto la salute dell’animo, e poi
quella del corpo, la quale non ti costerà molto”. Sono innamorato di questo
cofanetto che contiene i due volumi – con il testo latino a fronte – pubblicato
dalla BUR. Lo comprai tanti anni fa pagandolo trentamila lire: una sorta di
bibbia laica, una fonte inesauribile di saggezza. Per chi non lo sapesse, l’opera
comprende 124 lettere indirizzate da Seneca al suo amico Lucilio, Governatore
della Sicilia. Le missive toccano diversi argomenti e affrontano i grandi temi
dell’esistenza come l’amore e la morte, l’amicizia e la vecchiaia, la povertà e
la ricchezza, il tempo e la solitudine…
Sul mio comodino c’è, infine, “Il libro dell’inquietudine” con
cui Fernando Pessoa ci restituisce l’uomo del Novecento: tormentato, con
una visione negativa del mondo, con la sua solitudine esistenziale; un uomo –
come ha scritto Antonio Tabucchi che ci ha fatto conoscere lo scrittore
portoghese – “che deride e si deride e che, nella sua verità e nella sua
cattiveria, nell’abuso del paradosso, nella capacità di affermare ironicamente
il contrario di un assioma già ironicamente adoperato, realizza una poesia fra
le più rivoluzionarie del Novecento”. Il libro dell’inquietudine è una miscela
di appunti, meditazioni, vaneggiamenti, una sorta di diario intimo che Pessoa affidò
a uno dei suoi tanti eteronimi: Bernardo Soares. Si, perché in Pessoa si
riflettono e vivono tante personalità da lui create che ne fanno “una sola
moltitudine”, “una plurima, mostruosa cattiva coscienza: – scrive ancora
Tabucchi - la mia, la nostra, la vostra, quella di tutti gli uomini di buona
volontà, di qualsiasi buona volontà si tratti. Pessoa è un grido di dolore e un
belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna
dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del
suo teorema” Pessoa ci dice che “la letteratura, come tutta l’arte, è la
dimostrazione che la vita non basta”. Se bastasse, probabilmente nessuno
scriverebbe libri, dipingerebbe madonne, costruirebbe cattedrali, comporrebbe
sinfonie e poesie. E nessuno leggerebbe libri. “Per me scrivere – dice
Pessoa – è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come
la droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono
veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima”.
E noi non possiamo smettere di nutrirci di questi “veleni necessari” e di
leggere e rileggere “Il libro dell’inquietudine”.
“Se vorrai star bene – scrive Seneca – cura soprattutto la salute dell’animo, e poi quella del corpo, la quale non ti costerà molto"
RispondiEliminaBasterebbe leggere un passo del genere la sera prima di addormentarsi per poi svegliarsi in un'altra dimensione . È certo che ce la mettiamo tutta per essere in salute sotto l'aspetto fisico...non serve scrivere "sentenze" sulle travi del soffitto,noi ci tatuiamo sul corpo e ci esibiamo a petto nudo,siamo il soffitto di noi stessi verso gli altri per sentire di esistere,siamo libri aperti di giorno e non amiamo stare su quel comodino al consulto dell'animo.Trovassimo almeno un giusto equilibrio,sarebbe già un successo.
Eppure esistono persone e spazi che sono illuminanti,si lasciano accarezzare i loro animi trasportando anche il tuo, attraverso una letteratura che cura e lenisce i dolori dell'anima ...per cui grazie!
Buona settimana a te e a tutti coloro che ti seguono
Alcuni grandi pensatori del passato, come quelli da me sopra citati, sono buoni compagni di viaggio ideali per affrontare il percorso alquanto aspro e tormentato della nostra esistenza. Sono vissuti in un’altra epoca, molto diversa dalla nostra, eppure sembrano nostri contemporanei. Sono autori che danno voce ai nostri stessi pensieri, ma con chiarezza e autorevolezza a noi irraggiungibili. Sembrano conoscerci meglio di quanto non ci conosciamo noi, ci ritroviamo nei loro scritti, illuminano le nostre confusioni e tutto ciò che in noi è appena tracciato.
EliminaCiao L. e buone cose anche a te.
Io ho diversi "libri da comodino" sparpagliati per casa.. leggo un po' dappertutto e capita che ci sia il libro da bagno, quello da comodino, quello da tavolino da salone, poi ci sono le librerie accanto al divano, quelle in corridoio dove passi e ti cade l'occhio, l'articolo che leggi che ti richiama il tale autore o il tal altro, e allora prendi il libro, o lo cerchi, e mentre sei intento ti capita altra roba, altra roba da tavolino o da comodino che invece era serenamente accomodata su uno scaffale, tutto che contribuisce però, alla tua serenità, alla ricerca risolta, alla sicurezza di una conforto ovunque ne sia necessità. Il lettore che si circonda di serenità, scudo visibile e sensibile, come sottolinea l'amico/a qui sopra.
RispondiEliminaOgni buon libro ne richiama sempre un altro e ognuno di noi ha i suoi “libri da comodino” o “da tavolino”. Non immaginavo che ci potesse essere anche un “libro da bagno”, sarà perché io non amo leggere in quel posto. Comunque sia, ben vengano questi libri capaci di scacciare e lenire i nostri turbamenti dell’anima, come giustamente scrive la nostra amica L. di cui sopra.
RispondiEliminaE' un luogo dove non si dovrebbe star troppo (specie noi maschietti) ma anche un'oasi di quiete incredibilmente propedeica alla lettura.. ;)
Elimina"E' un'oasi di quiete", d'accordo, ma io proprio non ci riesco a leggere seduto in quel posto, lo trovo poco dignitoso, anche se su quel "trono" siedono anche i re. Non so se Montaigne leggesse mentre espletava i suoi bisogni fisiologici, ci dice soltanto che "quando sedeva al gabinetto preferiva avere intorno la tranquillità assoluta, e che anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo". Fu perciò uno dei primi scrittori a sdoganare certi concetti che non venivano menzionati nei salotti più educati, sforzandosi di riconciliarci con la nostra fisicità meno nobile :)
Eliminasul comodino abbiamo in comune il "libro dell'inquietudine" e questo mi fa piacere
RispondiEliminamassimolegnani
Fa piacere anche a me! Un saluto e stammi bene, ml.
Elimina