martedì 5 novembre 2019

La signorina Felicita ovvero la Felicità



Amo il poeta Guido Gozzano, forse il più grande “narratore in versi” della letteratura italiana. Amo la sua malcelata malinconia, il suo decadentismo, il suo distacco ironico e disincantato nei confronti della vita, il suo raffinato stile letterario, il suo interesse per le “buone cose di pessimo gusto”, la sua sofferenza esistenziale. Le poesie di Gozzano sono bozzetti di vita quotidiana, sono scene legate ad un mondo crepuscolare. Diceva Pasolini che “non c’è dopo Dante un rimatore più abile di lui, né un più spregiudicato inventore di rime”.

“La signorina Felicita ovvero la Felicità” è forse il poemetto narrativo più celebre del poeta piemontese che contiene - in 434 versi - tutta la sua tematica poetica, la sua visione del mondo, sospesa tra ironia e malinconia, tra letteratura e malattia, tra estetismo e decadentismo. Il protagonista del poemetto è un avvocato – l’alter ego del poeta - che si abbandona al ricordo di una donna, Felicita, conosciuta durante una vacanza nel Canavese in provincia di Ivrea. Il suo amore giovanile. Il componimento poetico così inizia:

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Tra il serio e il faceto, Gozzano descrive questo amore malinconico, rivede la casa con il suo arredo “squallido e severo” dove Felicita abitava con il padre che gli parlava “dell'uve e del guaio notarile con somma deferenza”, rievoca quel mondo semplice e contadino fatto di piccole cose, dove ogni azione quotidiana aveva la sua importanza. E poi celebra lei, Felicita, che ha la forza di suscitare in lui un fascino indefinibile, nonostante la sua scarsa bellezza:

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto squadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia…
 
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Il pensiero del poeta/avvocato  corre poi alla sua malattia ed ai pochi anni che ancora gli restano da vivere; ma la presenza ed il sorriso di Felicita gli procurano gioia e lo fanno ben sperare
 
Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
  
< Avvocato, non parla: che cos'ha?>
<Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città…
Sarebbe dolce restar qui, con lei!…>-
<Qui, nel solai?…> - < Per l'eternità!>-
<Per sempre? Accetterebbe?…> -<Accetterei!>
 
Il protagonista  si accorge che Felicita lo guarda quasi con sgomento ed allora lui cerca le sue mani e le stringe lungamente dicendole:

< Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?>
 
<Perché mi fa tali discorsi vani?>
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..>
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia come fa la scolaretta.

Il poeta è colpito dalla semplicità e dall’ignoranza di Felicita e pensa che sia meglio vivere una vita normale e semplice anziché scrivere versi e fare  l'esteta gelido, il sofista”
 
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatto la seconda
classe, t'han detto che la terra è tonda,
ma tu non credi… e non mediti Nietzsche…
mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda…
  
Ma con la vacanza che volge alla fine, viene meno anche quella felicità promessa e quell'amore non soddisfatto 

giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…
 
M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…
 
Quello che fingo d'essere e non sono!

La poesia è di una bellezza struggente. Consiglio l’ascolto in rete della lettura integrale declamata da Vittorio de Sica.



4 commenti:

  1. l'anno scorso ho visitato il Meleto, la casetta di campagna dove si ritirava Gozzano in estate e ogni volta che voleva staccarsi dalla città. rileggendo il poemetto che pubblichi rivedo quegli ambienti dall'arredamento ingenuo e pesante, poche stanze cariche di ninnoli e dense della sua presenza.
    massimolegnani

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    1. Questa residenza è un vero e proprio museo, fonte di ispirazione per Gozzano; qui,tra quelle “buone cose di pessimo gusto” compose molte delle sue poesie. Ciao Carlo

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  2. Socchiusi gli occhi, sto supino nel trifoglio, e vedo un quatrifoglio che non raccoglierò.
    Adoro Gozzano, corso monografico primo anno di università per l'esame di letteratura, I Colloqui, e da quel momento non spessissimo, lo riassaporo.

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