
“Un romanzo sul profondo disagio del nostro tempo”, così recita la quarta di copertina de “Il silenzio delle
pietre”, uno degli
ultimi libri pubblicati da Vittorino Andreoli, capace di incunearsi nei più oscuri labirinti
dell’animo umano. Ci troviamo nel 2028, un futuro che somiglia molto al nostro
presente dove le città, che intossicano sempre di più, continuano a crescere a
dismisura “come se si stesse accumulando
della spazzatura in maniera incontrollata” e, nonostante il benessere
raggiunto da una società sempre più tecnologizzata, la vita sociale e familiare
appare sull’orlo di un precipizio. Il protagonista che esce dalla penna di
Andreoli – in cui potrebbe rispecchiarsi chiunque oggi sia stanco della follia che
regna sovrana nelle grandi città – decide di andarsene lontano da tutti e da un
mondo civilizzato che “stava scivolando
verso la sua fine, verso la barbarie” e dove era diventato quasi difficile
e faticoso vivere. Un mondo dove non esisteva più il rispetto dell’altro e dove
la sopraffazione e la trasgressione si erano affermate come le uniche modalità
per emergere. Il personaggio del romanzo si spinge, per questa sua temporanea
ma estrema decisione, in una baia isolata nel Sutherland della Scozia, affacciata
sull’Oceano Atlantico, un luogo straordinario per la sua bellezza quasi
primordiale, abitato solo da pecore, anatre e uccelli marini quali gabbiani,
aironi, cormorani…, dove esiste la più bassa concentrazione umana di tutto il
pianeta. “Li non correva il pericolo di
incontrare uomini e donne – recita la voce narrante del libro - ma se avesse sentito la mancanza, gli
sarebbe bastato percorrere cinque-sei chilometri e sarebbe arrivato al
villaggio, che contava cinquecentosessanta abitanti”. Il nostro eroe non ne
poteva più del caos delle metropoli “capolavori
della follia umana”, non sopportava più l’idea di essere schiavo dei soldi,
delle macchine, delle cose inutili e della libertà di possedere ciò che non
serviva a vivere. Voleva liberarsi – anche se momentaneamente - dal contatto
con l’uomo, “che è uno degli animali più
impossibili e orrendi tra le creature del cielo e della terra”, per poter
pensare e interrogarsi sulle sorti del mondo, ricominciando così a vivere.
Cercava quel contatto perduto con la natura e con se stesso, inseguiva la
bellezza del silenzio che permette di sentire un mondo diverso oltre che il piacere
delle piccole cose, desiderava ascoltare i suoni della natura, come il canto
degli uccelli, il mormorio del vento, il sussurrare della pioggia, soffocati
tutti dal frastuono delle città. E la solitudine gli sembrava la condizione
ideale.
Il libro mi rimanda inevitabilmente a “Walden o vita nei boschi” , da
sempre considerato libro-culto da intere generazioni, in cui si rispecchiano i
fautori dell’ecologia, i pacifisti di ogni paese ed i sostenitori di un modello
di sviluppo e di vita alternativi a quello vigente. Il suo autore, Henry David
Thoreau - figlio ribelle ed anticonformista dell’America dei primi anni
dell’Ottocento - voleva dimostrare che l’uomo, rifuggendo la civiltà
industriale e consumistica, con poche e semplici cose poteva condurre un’esistenza
in armonia con se stesso e con il mondo circostante. E pertanto abbandonò il
consorzio civile e si rifugiò in una casupola in mezzo al bosco sulla sponda di
un piccolo lago, dove visse per oltre due anni, zappando la terra e coltivando
fagioli, pescando nel lago, leggendo, ricevendo ospiti nella sua capanna,
dedicandosi alla meditazione ed alla contemplazione della natura. E interrogandosi sulle ragioni più profonde dell’esistenza.
“Ma l’uomo – scrive Andreoli – ha bisogno dell’uomo e allora occorre che
rimanga e non fugga lontano…il problema non è quello di scappare dal mondo per
andare in un altro che non ti appartiene, ma di fare in modo che la città
mantenga una dimensione possibile e non sia più il luogo della follia”.