Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia
– un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio
esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del
territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento,
ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita
e di lavoro dei suoi abitanti nonché le caratteristiche degli stessi,
evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto
in un libro molto importante “Viaggio nel
Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi stimola (da
buon cilentano) a fare una riflessione unicamente sull’identità e sulle
caratteristiche peculiari dei cilentani. Sarebbe oltremodo interessante capire
– a distanza di 137 anni da quel viaggio – se le specificità caratteriali di
quei nostri antenati, descritte con dovizia di particolari nel libro, ancora ci
appartengano o siano invece superate dai tempi, dalla cultura e dalla civiltà.
Insomma, quello che io mi chiedo è se possiamo ancora considerarci – noi
moderni cilentani – discendenti di quegli antichi abitanti della seconda metà
dell’Ottocento. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi
socio-antropologica a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo
cilentano: vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza e senza pregiudizi ed in
maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo
scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, ci offre
la possibilità di guardarci nello specchio del passato e verificare cos’è
cambiato in questo arco di tempo.
La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la
grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità
franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà
simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei
ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i
diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa
accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a
braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”;
a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono
nel breve tempo che mi trattenni delle cure affettuose delle quali serberò
perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un
mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori
della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”;
a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia
Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”.
I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali,
dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della
tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e
dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci
contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile,
buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi
notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei
suoi parenti e conterranei”. Escludo che lui oggi possa considerarsi vendicativo:
la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una
grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione
delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il
viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli
orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e
melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era
sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e
della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre
con un cellulare tra le mai) che si dedichino a questo tipo di canto di stampo
orientale. La televisione e San Remo, diciamocelo, hanno provveduto in maniera
definitiva a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole
del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per
talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è
profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come
intelligenza”. Ebbene quando ho letto questa frase il mio pensiero è andato
immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese
natale, che avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per
attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un
orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza
ma non con la forza”.
Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici,
tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che
incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono
nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal
proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo
cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi
termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si
era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e
finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che
questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è
facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano
molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori,
che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta,
tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un
cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era
che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa
dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue
vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene
da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e
non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino: quod non fecerunt barbari
fecerunt Barberini.
Aveva inoltre riscontrato nella popolazione anche la
mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza
e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci
appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera
buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza –
rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi
rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di
vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”.
Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane
decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei
dintorni fossero ricchissimi di acque potabili.
Ma gli odierni cilentani si sono risvegliati da quel
torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva
all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe
di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto
gli occhi di tutti, nel bene e nel male. Mi viene da pensare che quando un
popolo, qualunque esso sia, riesce a fare autocritica individuando la parte
peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per combatterla. E penso
che debba anche saper investire tutte le risorse e le energie necessarie al
fine di potenziare il meglio che gli appartiene.
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