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martedì 27 marzo 2018

Diceria dell’untore: un amore tra malattia e morte



“Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande”

Quando lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino decise, nel 1981, di far pubblicare il suo primo romanzo “Diceria dell’untore” dall’editore Sellerio, aveva già sessant’anni ( nacque a Comiso nel 1920 e morì nel 1996 a seguito di un brutto incidente stradale). Fu, il suo, un debutto letterario a dir poco clamoroso perché il romanzo, che aveva avuto una gestazione lunghissima – Bufalino aveva iniziato a scriverlo addirittura negli anni ‘50, ripreso poi nel 1971 con  revisioni successive fino al 1981 – ottenne immediatamente un grande successo di critica e di pubblico, aggiudicandosi il Premio Campiello. Lessi “Diceria dell’untore” una prima volta molti anni fa, ma, lo devo confessare, non mi entusiasmò in maniera particolare. L’idea di rileggerlo mi è venuta guardando, alcune sere fa, un programma culturale molto interessante (trasmesso da Rai 5) sul pensiero e le opere di questo grande scrittore, troppo in fretta dimenticato. E devo dire che il libro, riletto oggi, mi è apparso tanto ricco di suggestioni emotive quanto avaro lo era stato la prima volta, a conferma del fatto che i grandi romanzi hanno spesso bisogno di tempi e modi diversi di lettura, proprio per poterli meglio apprezzare. E’ come se leggere un capolavoro una sola volta non bastasse a scoprirne la bellezza che si nasconde tra le sue pagine, non fosse sufficiente a coglierne tutte le sfumature.
La vita, con i suoi accadimenti naturali come l’amore, la malattia e la morte, sono i grandi temi della grande letteratura. E spesso lo scrittore attinge la materia prima per la sua scrittura da fatti realmente accaduti. Come nel romanzo “Diceria dell’untore” per la cui realizzazione Bufalino prende proprio lo spunto da una sua dolorosa esperienza di vita: lui, malato di tubercolosi, era stato ricoverato in un sanatorio palermitano negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando la TBC colpiva ancora le sue vittime come nell’Ottocento. I personaggi del romanzo – in primis la voce narrante del libro – sono vittime della guerra, reduci e rimpatriati che vivono i loro ultimi giorni in questo luogo di sofferenza che si chiama la Rocca, forse senza nessuna speranza di salvezza. “Una setta di sbanditi eravamo – dice il protagonista - e incapaci di amarci fra noi, o così ci pareva, benché chi si è salvato abbia capito anni dopo ch’era vero il contrario, e che era già amore la passione con cui s’imparava la morte degli altri come se fosse la nostra”. La vita in comune nel sanatorio con “l’esistenza smozzicata degli altri” si trascina lentamente con tutti i suoi problemi fino a diventare una sorta di dipendenza dalla malattia in attesa della morte, tanto che la guarigione veniva sentita come una colpa, una diserzione, alla stessa maniera di come veniva vissuta la liberazione da parte dei sopravvissuti nei campi di sterminio nazisti. “Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora – recita la voce narrante - è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci”.

Ma le pagine più toccanti del romanzo, quelle che più fanno riflettere suscitando sentimenti di tristezza, sono quelle che raccontano l’amore del protagonista per Marta (un nome così simile alla parola morte), una donna dal passato ambiguo, una ex ballerina malata come lui, la quale riuscirà a donargli i suoi ultimi scampoli di vita e di amore dopo una breve fuga a bordo di un ‘auto, lontano dalla Rocca. Un effimero bagno di vita normale.
Il libro presenta una scrittura davvero raffinata, colta, direi sontuosa; l’autore usa a volte termini desueti che però hanno il sapore della cultura e si prestano ad una dimensione espressiva di musicalità e di poesia, di rara bellezza. Una peculiarità, questa, difficile da trovare nel panorama letterario dei nostri tempi. Lo stile ricercato e barocco nulla toglie alla narrazione che sa essere cruda, malinconica ma coinvolgente fino a commuovere il lettore. L’autore, attraverso una vicenda così dolorosa riesce tuttavia a nobilitare le pene dei suoi personaggi conferendo alle parole scritte una forte energia vitale ed una bellezza letteraria che esaltano la lettura, indipendentemente dal loro contenuto di tristezza. Quasi a voler sottolineare che nessuno meglio di chi ha sofferto ed ha avuto un incontro ravvicinato con la morte sa donarci insegnamenti di quotidiana felicità.

6 commenti:

  1. Mi hai fatto venir voglia di rileggerlo. D'altronde ne ricordo cosi poco che sara una lettura nuova.
    Ciao Remigio
    massimolegnani

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    1. Anch'io ricordavo poco. La rilettura si è rivelata una piacevole sorpresa. Ciao Carlo

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  2. L'ho letto tanti anni fa.
    Lo ricordo appena...

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    1. Forse non l'avrei riletto se, come ho scritto nel post, non avessi avuto l'input da quella trasmissione televisiva che mi ha spinto a riprenderlo.

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  3. Credo che a volte vedendo un programma, ascoltando un'intervista, si ottengono delle chiavi di lettura o delle sensazioni che non si erano colte in precedenza e che quindi ti accendono l'attenzione e l'interesse verso un libro ed un autore che prima non avevi compreso a fondo o non ti era riuscito a comunicare le sue emozioni.

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    1. Proprio così, Daniele. A volte una "illuminazione" esterna serve a fare chiarezza dentro di noi.

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