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lunedì 19 marzo 2018

Virginia Woolf e quella “Gita al faro”



Quando mi imbatto in un libro che non riesce a coinvolgermi emotivamente, nonostante sia considerato in modo unanime un capolavoro della letteratura, cerco quasi sempre di capire per quali ragioni quel libro, così conosciuto e così importante, possa piacere a tante persone tranne che al sottoscritto. Forse l’avrò letto nel momento sbagliato e quindi non era in sintonia con il mio umore; forse sono stato disattento e frettoloso nella lettura e mi sono lasciato sfuggire qualcosa che potesse aiutarmi a comprenderlo meglio e ad apprezzarlo; forse mancava una trama avvincente e quindi la noia ha avuto il sopravvento sul piacere della lettura; forse non sono stato capace di governare la complessità della narrazione e ho preferito abbandonarlo. Insomma, sono supposizioni, dubbi, inadeguatezze che non sempre riescono a giustificare la mia amarezza di fronte ad una sorta di sconfitta: quella di non aver compreso appieno un libro importante o addirittura di averlo abbandonato anzitempo.
Facevo queste riflessioni mentre portavo a termine – devo dire con grande fatica - la lettura di quello che forse è considerato il romanzo più famoso di Virginia Woolf, “Gita al Faro” (la biblioteca di Repubblica). Devo dire che tempo fa avevo tentato un primo “approccio” con la scrittrice inglese, iniziando a leggere un altro suo romanzo che si intitola “Le onde”. Ma mi sono arenato immediatamente, dopo poche pagine, lasciandolo al suo destino, seguendo il consiglio di Daniel Pennac secondo cui “fra le ragioni che abbiamo di abbandonare una lettura, ce n’è una su cui val la pena di soffermarsi: la vaga sensazione di una sconfitta”. Si, avevo proprio la sensazione che quello che c’era scritto in quel libro meritava di essere letto, però io non riuscivo a prendere il volo per quanto mi sforzassi e allora ho preferito lasciare. Per colpa mia naturalmente, non certo della Woolf che resta, comunque, una delle maggiori scrittrici del Novecento. Ma non potevo arrendermi così e dovevo, pertanto, riprovare a riannodare i fili rimasti sospesi con questa scrittrice: mi sono allora tuffato (si fa per dire) nella lettura di “Gita al faro” che, seppure con scarso entusiasmo, sono riuscito a portarla a termine. E’ una lettura complessa e impegnativa che ho digerito con grande sforzo. La trama è marginale, direi quasi inesistente rispetto all’introspezione psicologica dei vari personaggi, il cui flusso continuo di pensieri e di sensazioni che si rincorrono, tra presente e passato, domina le relazioni interpersonali dell’intera narrazione. E’ il resoconto di una sola giornata che si svolge in una casa di vacanza nelle isole Ebridi, dove i coniugi Ramsay ed i loro otto figli ospitano alcuni amici, tra cui una pittrice che ha l’intenzione di dipingere un ritratto della padrona di casa. Viene organizzata una gita in barca verso un vicino faro, resa però impossibile dalle cattive condizioni meteorologiche. Gita che comunque si farà ma 10 anni dopo in un contesto totalmente mutato. In quei dieci anni sono accadute molte cose – tra l’altro è morta la protagonista principale, la signora Ramsay - ma il tempo reale appare molto diverso da quello intimistico e soggettivo dei personaggi che lo elaborano attraverso i ricordi, le attese e le speranze di ognuno di loro. Basti pensare che la pittrice terminerà finalmente quel famoso ritratto che aveva iniziato dieci anni prima. Come se il tempo non fosse passato. Il faro, che in un primo momento appare lontano e irraggiungibile, assume nel racconto un aspetto quasi astratto, onirico e rimanda alle ossessioni, alle attese e ai desideri, a volte irrealizzabili, dei protagonisti del romanzo. Leggo su Wikipedia che la Woolf scriveva nei suoi diari, a proposito del suo libro: “ Fino a quarant'anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre... Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai al faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un'altra... Che cosa aveva mosso quell'effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente, e quando l'ebbi scritto, l'ossessione cessò. Adesso non la sento più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda ».

6 commenti:

  1. molto interessante quello che dici sui motivi di abbandono di una lettura e sul senso di inadeguatezza che prende il lettore che alza bandiera bianca o che trascina la lettura per "senso del dovere" e non per piacere. Io credo che oltre alle cause che hai detto ce ne sia una più semplice e quasi insuperabile: la mancata corrispondenza tra il tipo di scrittura e il nostro gusto di lettura. Ti faccio l'esempio della musica: riconosco che la musica dodecafonica è ormai accettata come espressione moderna della musica classica, ma io Stockausen non riesco proprio a digerirlo, non "entro" nei suoi suoni dissonanti, resto distante e infastidito. Penso che per te il rapporto con Virginia Woolf sia qualcosa di simile, la difficoltà di entrare in sintonia con il suo modo espressivo. e non è colpa sua, ma nemmeno tua!
    massimolegnani

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    1. E' proprio così, Carlo. Non sono riuscito ad entrare in sintonia con la scrittura della Woolf. Devo dire che il flusso di coscienza, il monologo interiore usato dalla scrittrice inglese è una tecnica letteraria che a me piace molto: penso allo stile di Italo Svevo, uno dei miei scrittori preferiti, ma anche a quello di Arthur Schnitzler o James Joyce. Con la differenza che mentre quest'ultimi mi appassionano e li leggo senza difficoltà, la Woolf invece la percepisco lontana, inafferrabile dal punto di vista emotivo e fatico parecchio per comprenderla. Ma non mi sognerei mai di dire che Virginia Woolf non vale nulla. Non ho questa sfacciataggine! Ciao Carlo e buone letture. :-)

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  2. Ci sono tanti scrittori, molto famosi, senza che nessuno li abbia mai letti. Tra questi metterei senz'altro Virginia Woolf

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    1. Sono d'accordo con te. E scommetto che tu non hai mai letto i suoi libri. O no? :-)

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  3. Concordo con Carlo, ci possono essere grandi autori che per qualche ragione non entrano nelle nostre corde, così come accade per la musica e la pittura.

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    1. Affinità elettive... le avrebbe chiamate Goethe.

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