Quando mi imbatto in un libro che
non riesce a coinvolgermi emotivamente, nonostante sia considerato in modo
unanime un capolavoro della letteratura, cerco quasi sempre di capire per quali
ragioni quel libro, così conosciuto e così importante, possa piacere a tante
persone tranne che al sottoscritto. Forse l’avrò letto nel momento sbagliato e
quindi non era in sintonia con il mio umore; forse sono stato disattento e
frettoloso nella lettura e mi sono lasciato sfuggire qualcosa che potesse
aiutarmi a comprenderlo meglio e ad apprezzarlo; forse mancava una trama
avvincente e quindi la noia ha avuto il sopravvento sul piacere della lettura; forse
non sono stato capace di governare la complessità della narrazione e ho
preferito abbandonarlo. Insomma, sono supposizioni, dubbi, inadeguatezze che non
sempre riescono a giustificare la mia amarezza di fronte ad una sorta di
sconfitta: quella di non aver compreso appieno un libro importante o
addirittura di averlo abbandonato anzitempo.
Facevo queste riflessioni
mentre portavo a termine – devo dire con grande fatica - la lettura di quello
che forse è considerato il romanzo più famoso di Virginia Woolf, “Gita al Faro” (la biblioteca di
Repubblica). Devo dire che tempo fa avevo tentato un primo “approccio” con la
scrittrice inglese, iniziando a leggere un altro suo romanzo che si intitola “Le onde”. Ma mi sono arenato immediatamente,
dopo poche pagine, lasciandolo al suo destino, seguendo il consiglio di Daniel
Pennac secondo cui “fra le ragioni che
abbiamo di abbandonare una lettura, ce n’è una su cui val la pena di
soffermarsi: la vaga sensazione di una sconfitta”. Si, avevo proprio la
sensazione che quello che c’era scritto in quel libro meritava di essere letto,
però io non riuscivo a prendere il volo per quanto mi sforzassi e allora ho preferito
lasciare. Per colpa mia naturalmente, non certo della Woolf che resta,
comunque, una delle maggiori scrittrici del Novecento. Ma non potevo arrendermi
così e dovevo, pertanto, riprovare a riannodare i fili rimasti sospesi con
questa scrittrice: mi sono allora tuffato (si fa per dire) nella lettura di
“Gita al faro” che, seppure con scarso entusiasmo, sono riuscito a portarla a
termine. E’ una lettura complessa e impegnativa che ho digerito con grande sforzo.
La trama è marginale, direi quasi inesistente rispetto all’introspezione
psicologica dei vari personaggi, il cui flusso continuo di pensieri e di
sensazioni che si rincorrono, tra presente e passato, domina le relazioni
interpersonali dell’intera narrazione. E’ il resoconto di una sola giornata che
si svolge in una casa di vacanza nelle isole Ebridi, dove i coniugi Ramsay ed i
loro otto figli ospitano alcuni amici, tra cui una pittrice che ha l’intenzione
di dipingere un ritratto della padrona di casa. Viene organizzata una gita in
barca verso un vicino faro, resa però impossibile dalle cattive condizioni
meteorologiche. Gita che comunque si farà ma 10 anni dopo in un contesto totalmente
mutato. In quei dieci anni sono accadute molte cose – tra l’altro è morta la
protagonista principale, la signora Ramsay - ma il tempo reale appare molto
diverso da quello intimistico e soggettivo dei personaggi che lo elaborano
attraverso i ricordi, le attese e le speranze di ognuno di loro. Basti pensare
che la pittrice terminerà finalmente quel famoso ritratto che aveva iniziato
dieci anni prima. Come se il tempo non fosse passato. Il faro, che in un primo
momento appare lontano e irraggiungibile, assume nel racconto un aspetto quasi
astratto, onirico e rimanda alle ossessioni, alle attese e ai desideri, a volte
irrealizzabili, dei protagonisti del romanzo. Leggo su Wikipedia che la Woolf
scriveva nei suoi diari, a proposito del suo libro: “ Fino a quarant'anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di
mia madre... Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai al
faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un'altra... Che
cosa aveva mosso quell'effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto
rapidamente, e quando l'ebbi scritto, l'ossessione cessò. Adesso non la sento
più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che
gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione
antica e profonda ».
molto interessante quello che dici sui motivi di abbandono di una lettura e sul senso di inadeguatezza che prende il lettore che alza bandiera bianca o che trascina la lettura per "senso del dovere" e non per piacere. Io credo che oltre alle cause che hai detto ce ne sia una più semplice e quasi insuperabile: la mancata corrispondenza tra il tipo di scrittura e il nostro gusto di lettura. Ti faccio l'esempio della musica: riconosco che la musica dodecafonica è ormai accettata come espressione moderna della musica classica, ma io Stockausen non riesco proprio a digerirlo, non "entro" nei suoi suoni dissonanti, resto distante e infastidito. Penso che per te il rapporto con Virginia Woolf sia qualcosa di simile, la difficoltà di entrare in sintonia con il suo modo espressivo. e non è colpa sua, ma nemmeno tua!
RispondiEliminamassimolegnani
E' proprio così, Carlo. Non sono riuscito ad entrare in sintonia con la scrittura della Woolf. Devo dire che il flusso di coscienza, il monologo interiore usato dalla scrittrice inglese è una tecnica letteraria che a me piace molto: penso allo stile di Italo Svevo, uno dei miei scrittori preferiti, ma anche a quello di Arthur Schnitzler o James Joyce. Con la differenza che mentre quest'ultimi mi appassionano e li leggo senza difficoltà, la Woolf invece la percepisco lontana, inafferrabile dal punto di vista emotivo e fatico parecchio per comprenderla. Ma non mi sognerei mai di dire che Virginia Woolf non vale nulla. Non ho questa sfacciataggine! Ciao Carlo e buone letture. :-)
EliminaCi sono tanti scrittori, molto famosi, senza che nessuno li abbia mai letti. Tra questi metterei senz'altro Virginia Woolf
RispondiEliminaSono d'accordo con te. E scommetto che tu non hai mai letto i suoi libri. O no? :-)
EliminaConcordo con Carlo, ci possono essere grandi autori che per qualche ragione non entrano nelle nostre corde, così come accade per la musica e la pittura.
RispondiEliminaAffinità elettive... le avrebbe chiamate Goethe.
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