martedì 6 febbraio 2018

Quando il dipendente diventa un oggetto



Ci si chiede: è mai possibile che un dipendente possa arrivare ad annullare se stesso, i propri sentimenti e la propria dignità di lavoratore offrendosi, anima e corpo e senza alcun ritegno morale, all’azienda in cui lavora fino a diventarne un oggetto? E’ mai possibile che il “padrone” di quell’azienda, in forza del suo potere, possa usare quel suo dipendente come fosse un bicchiere, una penna, una sedia, una scrivania? Insomma, come un suo oggetto personale? Sebbene i due comportamenti possano apparire davvero estremi in un qualsiasi contesto lavorativo, essi ci costringono tuttavia a riflettere fin dove può arrivare l’aberrazione dell’uomo quando viene a trovarsi in simili frangenti. Chi non ricorda l’assurdo rapporto tra il capo e l’impiegato in quella famosa saga cinematografica dove il rag. Fantozzi si ritrova in balia delle decisioni del suo Megadirettore Galattico!
Sono, questi, comportamenti perversi che spesso rappresentano due facce della stessa medaglia: li ritroviamo nel libro “Il padrone” di Goffredo Parise, pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1965, anno in cui si aggiudicò il premio Viareggio. L’ho appena finito di leggere, nell’edizione Einaudi del 1971. E’ un libro che lascia un segno di profonda inquietudine nell’animo di chi lo legge e può essere collocato – secondo alcuni critici - in quella specifica corrente letteraria che porta il nome di “narrativa industriale” o “aziendale” dei primi anni sessanta, seguita da scrittori come Paolo Volponi, Luciano Bianciardi, Ottiero Ottieri ed altri. Nelle opere di questi autori ritroviamo alcuni importanti temi - ripresi poi dai giovani contestatori della società borghese e consumistica degli anni successivi al boom economico - quali l’alienazione, la solitudine estraniante delle metropoli, la ripetitività frustrante del lavoro sia in ufficio che nella fabbrica. Ma, d’altro canto, c’è da dire che “Il padrone” – grazie soprattutto all’ambigua ironia che aleggia tra le sue pagine oltre che alla rappresentazione caricaturale e metafisica che Piovene fa dei suoi personaggi - in qualche maniera si allontana dalla seriosità e dall’impegno civile e sociale dei romanzi di “matrice industriale”. E pertanto, come ha scritto qualcuno, il romanzo di Piovene somiglia più ad una “favola aziendale”, o meglio ad una parodia con i suoi risvolti a volte comici ed a volte malinconici e con punte di vera perfidia nei confronti di un povero impiegato, da parte del “padrone” della ditta in cui lavora. Dove i nomi dei personaggi richiamano quelli dei fumetti: incontriamo Lotar, il commesso-portiere della ditta dalle caratteristiche scimmiesche; Bombolo, Diabete, Pluto e Pippo, che sono impiegati con funzioni diverse; quindi Selene, la segretaria impudica e poi Minnie, la fidanzata del padrone, la quale ha il compito di rimodernare la biblioteca della ditta. E allora quale migliore occasione per eliminare romanzi e saggi inutili e sostituirli con le collezioni complete di Gordon, di Superman, di Paperino di Mandrake.

Ma chi sono i due protagonisti principali del libro? Il primo è un onesto e ingenuo ragazzo di provincia di vent’anni – apparentemente normale - voce narrante della storia, il quale vive alle spalle dei genitori ma desidera costruirsi una propria vita indipendente; il sogno sembra realizzarsi il giorno in cui viene assunto come impiegato presso una ditta commerciale in una grande città. A questo punto nuovi pensieri e nuovi sentimenti, mai sperimentati prima, iniziano a torturarlo e gli si aggrovigliano confusi nella testa fin dal primo momento: l’emozione per il primo impiego…l’impatto con i colleghi d’ufficio…lo spaesamento che provoca la grande metropoli… la paura di non farcela…la sua vita che cambia radicalmente…i suoi propositi per il futuro… Ma a complicare tutto, ci si mette  il Dottor Max: “il padrone”. Costui è un personaggio inquietante, nevrotico, dall’umore cangiante, ossessionato da strane idee sulla morale. Lui è un uomo ricchissimo, però ha scelto come fidanzata una persona povera, per mettersi a livello di tutti. La ritiene una scelta morale, identica a quella di rinunciare al gabinetto personale per non avere alcun privilegio e per trasformarlo in un ufficio: l’ufficio per il suo neo-assunto. Come dire: il dipendente prende il posto del wc. Ed è l’inizio della fine, della tragedia umana ed esistenziale del nostro impiegato il quale finirà per essere stritolato dal sistema messo in atto dal padrone attraverso una crudele spersonalizzazione, le cui conseguenze nefaste lo faranno diventare una sua protesi, una cosa di sua proprietà, finendo per identificarsi in maniera assoluta e morbosa con lui, tanto da non riuscire a pensare a se stesso senza pensare al padrone “…il padrone, Padrone del mio tempo, dei miei atti, dei miei pensieri, dei miei sentimenti e del tempo libero che è interamente occupato dalla sua presenza” . In breve accetterà, felice e soddisfatto, qualsiasi cosa gli venga proposta: diminuzioni dello stipendio, iniezioni di vitamine senza averne bisogno (ma ne ha bisogno il padrone); sposerà una ragazza ritardata mentale perché il padrone vuole una discendenza di ritardati ubbidienti per la sua ditta; e per rendere felice il padrone il protagonista, alla sua domanda “ma lei a che cosa aspira?” lui risponde: “alla morte”. E’ un libro crudele e sarcastico, grottesco e inquietante, dove i due protagonisti appaiono entrambi vittime e carnefici di se stessi.

12 commenti:

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    1. Tranquilla, Sabina :-)...E' solo finzione letteraria, una forzatura. Nella realtà, i rapporti tra capo e dipendente non arrivano a tanto. O no?

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    2. beh...insomma...se ne sentono di cose!

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    3. E' vero, se ne sentono...però, almeno questa volta, la finzione va oltre la realtà.

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  2. La donna per cui lavoravo considerava chiunque alla stregua di un oggetto da usare, maltrattare, prendere, lasciare, appoggiare e distruggere a suo piacimento.
    Nulla di nuovo, almeno per me.

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    1. Credo che la donna "padrona", quando ha sotto le sue dipendenze un'altra donna, diventi molto più crudele e spietata di un "padrone" maschio. Non so se in letteratura esistono casi di questo genere

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  3. Finzione letteraria ma inquieta lo stesso anche perché a volte letteratura e musica hanno spesso anticipato i tempi e "visto" il futuro. E tutto ciò sarebbe preoccupante se accadesse.

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  4. buongiorno esimio Remigio,
    in questa tua eccellente recensione, come sempre, hai toccato un tasto molto sensibile.
    Ho 60anni ma ancora ricordo, quando ero ragazzo, che i lavoratori chiamavano "il mio padrone" il titolare dell'azienda in cui lavoravano. Come sai qui a Torino c'è, c'era, la Fiat, moltissimi operai approdati in fabbrica negli anni 60/70, hanno dato un taglio quasi mistico al vincolo aziendale, al punto da creare una vera e propria sindrome. Pensionati che continuavano per lungo tempo ad alzarsi al mattino presto e andare davanti ai cancelli. Tutto questo forse potrà apparire fuori tema ma anche no, dalla devozione al diventare un oggetto il passo è breve.

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    1. Tads carissimo,
      buonasera a te. E' proprio vero: passare da dipendente a una cosa di proprietà della ditta il "passo è breve". Mi fai ricordare un mio ex collega il quale - un po' come quei pensionati della Fiat - una volta andato in pensione, non riusciva a staccarsi dall'ufficio, tant'è che tutte le mattine - e per molto tempo - ritornava dai suoi ex colleghi e gironzolava per i corridoi. Addirittura si serviva della mensa e se qualcuno lo chiamava a fare qualche lavoretto, non si tirava mai indietro. Il lavoro era tutta la sua vita...

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