“l’inizio
di un luogo è legato spesso alla fine di un altro”
“Ho cominciato a raccogliere
memorie di luoghi abbandonati, in via di abbandono, a rischio spopolamento e
svuotamento quaranta anni fa”. Così l’antropologo calabrese Vito Teti inizia “Quel che resta – l’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni”
(Donzelli editore), un bellissimo libro che si colloca tra il saggio
antropologico e il romanzo, il diario intimistico e il reportage. “I grandi
antropologi – scrive Claudio Magris nella prefazione del libro – sono insieme
storici, archeologi che scavano nello spazio e nel tempo, nel passato e anche
nel presente, e per questo sono, nel senso forte, dei poeti”.
Io credo che sia davvero raro
trovare, nel firmamento letterario dei nostri tempi, un’opera così appassionante
che sappia fondersi tra analisi storico-antropologica e poesia, sentimento e
ragione. Con questo suo libro Teti riesce a toccare le corde più sensibili del
nostro animo: ci fa commuove e riflettere sul senso della vita e della morte e
su “quel che resta”: di esperienze passate, di tradizioni, di storie, di
legami, di memorie, di paesi che si spopolano e muoiono. E lo fa attraverso un
racconto a tratti autobiografico, intriso di malinconia e di poesia, un viaggio
tenero e affettuoso nell’Italia “dei paesi, tra abbandoni e ritorni”, come
recita il sottotitolo. I paesi abbandonati, la case chiuse che custodiscono le
memorie degli antichi abitanti, le rovine che restano a testimoniare un antico
passato “possono continuare a vivere – scrive l’autore - soltanto attraverso la
letteratura e la scrittura. Gli oggetti, i materiali, le cose, le parole del
mondo perduto e sommerso rivivono, almeno per un attimo, nel momento in cui
vengono nominati”. Perciò, fino a quando ci sarà qualcuno che ricorda un paese
e mantiene viva la sua memoria, ne ricostruisce la sua storia, quel paese non
scompare del tutto. E continua a vivere.
I resti di città e monumenti,
che assurgono a testimonianza di antiche civiltà, hanno sempre esercitato su di
noi fascino e attrazione e, almeno a partire dal Settecento, è difficile
immaginare la bellezza in modo separato dalle rovine. L’autore del libro fa
notare che sempre più spesso le rovine del passato convivono con le rovine/macerie
del presente, quest’ultime provocate dal passare del tempo, dall’incuria dell’uomo,
ma anche dalle calamità naturali: come quelle case costruite con chissà quali
speranze e troppo in fretta abbandonate, oppure come quelle nuove costruzioni
in cemento, a più piani, lasciate incompiute che finiscono per deturpare in
maniera violenta il paesaggio o come quelle vecchie case di paese diventate
ruderi a seguito della morte degli originari proprietari, ma anche a seguito
della loro partenza verso paesi lontani. E come dimenticare, poi, le macerie di
interi paesi distrutti dal terremoto, che stanno lì a testimoniare la furia
devastatrice del sisma e soprattutto le tante, troppe, vite spezzate. Certo,
bisogna sempre distinguere tra macerie e rovine: le macerie non parlano, sono
“un puro ingombro, vuoto a perdere”, le rovine, al contrario, ci ricollegano “a
un tempo passato che dura nel presente...possono rappresentare memoria, ma
anche vita, diventare elementi di un diverso sentimento dei luoghi”. Ma sono
soprattutto le case abbandonate che hanno la forza di stabilire “collegamenti
tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti”. E coloro che sono
partiti rappresentano la ragione principale dello spopolamento di un paese,
nella Calabria raccontata da Teti così come in qualsiasi altro luogo
dell’Italia. Con l’emigrazione di massa degli anni passati - che ha interessato
soprattutto le regioni meridionali - intere comunità si sono frantumate e
disperse dando origine in territori lontani (Americhe, Francia, Germania ecc.)
a “paesi doppi”, i sosia dei paesi d’origine. Una sorta di dilatazione del
luogo nativo. Muoiono i vecchi paesi e rinascono in altre terre. Da qui –
secondo Teti – è nata la malinconia, intesa come “sentimento e condizione
dell’uomo errante, sradicato, esiliato, come manifestazione di nostalgia autentica
e non retorica dell’individuo che abbandona, per necessità o per scelta, la
casa, l’universo d’origine”. E quando si torna – ma forse si parte per non ritornare
mai - tutto è cambiato e niente è più come prima: in primis la casa, che se non
è stata venduta o ristrutturata, appare come un rudere, è circondata dai rovi,
è irriconoscibile. Colui che si è spostato e colui che è rimasto nel posto si
percepiscono l’uno come ombra dell’altro.
E’ un libro che fa riferimento
a tantissimi altri testi di storia e di antropologia e “dopo averlo letto – scrive
Magris – si sta un po’ meglio, ci si sente meno smarriti di fronte
all’andirivieni delle cose, del mondo, di noi stessi. Non è un dono da poco”. Per
concludere, vorrei dire che io non ho la pretesa di consigliare a qualcuno i
libri che leggo. La lettura è sempre personale, legata al nostro modo di essere,
alla nostra cultura, alla nostra sensibilità. Tuttavia, se proprio dovessi
farlo in questa occasione, consiglierei la lettura di “Quel che resta” a tutti
coloro che sanno cogliere la bellezza struggente che evoca l’immagine sotto
riportata e sanno riconoscere quel filo sottile che lega le rovine alla
caducità del tempo, che tutto modifica. Meno l’anima, che
comunque resta e si percepisce nell’osservare sia le rovine dell’antichità che quelle
del presente, la maestosità di un tempio dell’antica Grecia come l’arcaica bellezza
di una vecchia casa in pietra abbandonata e intrisa della vita delle persone
che l’hanno abitata e posseduta.
Roscigno vecchia (SA) |
Hai fatto benissimo a segnalare questo libro, benissimo.
RispondiEliminaA me, per esempio, il rapporto tra le persone e i luoghi in cui si trovano a vivere interessa moltissimo.
Ne abbiamo parlato più volte: ognuno di noi somiglia, almeno un po', alla sua terra.
Davvero grazie per la segnalazione.
Grazie a te, Sabina. E' proprio vero: somigliamo alla terra di origine. Il libro di Teti è molto interessante, nonostante la sua indagine antropologica riguardi soprattutto i paesi della sua terra, la Calabria. Però la Calabria - e qui sta la forza del libro - diventa una sorta di modello, una traccia da cui l'autore parte per far riemergere e conservare "quel che resta" di storie e memorie delle tante piccole comunità di cui è costellato il nostro paese.
EliminaConcordo con Sabina. Aggiungo che sai sempre segnalare letture interessanti ed intelligenti fuori da un contesto mainstream. Bravo.
RispondiEliminaGrazie Daniele. sei troppo buono. E' vero, non mi lascio condizionare dalle mode e dai...suggerimenti per gli acquisti. Quando vado in libreria, i miei libri me li cerco tra gli scaffali e non mi affido alla classifica dei più venduti. E poi, per me, un libro deve invecchiare, come un buon vino. Un saluto.
Eliminami chiedo cosa avrebbe detto Teti arrivando a Sestriere. forse nulla perchè non c'è traccia di abitazioni preesistenti allo scempio.
RispondiEliminaml
Teti dice che il bello e il brutto coesistono nel paesaggio calabrese; credo che questa sua affermazione possa estendersi a tutto il territorio nazionale. Se fosse arrivato a Sestriere, dove tu hai trovato l'inferno, probabilmente avrebbe detto le stesse cose che ha scritto per la Calabria, nel suo libro. Leggiamole: "Le nuove costruzioni, rovine postmoderne, hanno finito con lo sconvolgere in maniera definitiva aspetti importanti del paesaggio calabrese. Tratti di costa e aree collinari e montane si presentano deturpati in modo irrevocabile. Ciò che non hanno fatto le rovine del passato, hanno potuto le macerie moderne, facendo emergere i tratti più degradati di un paesaggio ancora incantevole..."
Eliminaquella definizione, rovine postmoderne o macerie moderne, colpisce nel segno aldilà di ogni latitudine. Guardando le costruzione del Sestriere hai proprio l'impressione di roba nata vecchia, già fuori moda (oltre che fuori luogo!) pochi anni dopo la sua nascita.
EliminaIo non ho visto Sestriere, però ho avuto la possibilità di vedere altri posti, altre "rovine postmoderne" che somigliano alla località piemontese. Perché le brutture che rovinano certi bei paesaggi, caro Carlo, si somigliano. Tutte. Dal Nord al sud, passando per il Centro. Un saluto
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