venerdì 21 luglio 2017

Le anime morte



Le anime, nella Russia dell’Ottocento, erano i servi della gleba, cioè quei contadini  che venivano assoldati dai ricchi proprietari terrieri. All’epoca, la terra che lo Stato affidava ai notabili era commisurata al numero dei servi della gleba annoverati alle loro dipendenze, sui quali i proprietari terrieri erano tenuti a corrispondere una imposta pro capite. L’imposta veniva calcolata in occasione di ogni censimento - che di solito si verificava ogni 10 anni - per cui se nel frattempo alcuni di questi contadini morivano, il proprietario terriero era comunque obbligato a corrispondere l’imposta dovuta su queste “anime morte”, fino al censimento successivo che certificava l’avvenuto decesso.

“Le anime morte” di Nikolaj Gogol (Garzanti editore) disegna un grande affresco della società rurale e contadina della Russia ottocentesca, vista attraverso gli occhi di Pavel Ivanovic Cicikov, il protagonista del romanzo. Questo personaggio è un affarista spregiudicato e senza scrupoli, un navigato truffatore, alla continua ricerca di potere e di ricchezze, che viaggia in lungo e in largo nella Russia zarista comprando per pochi rubli “anime morte”. E lo fa attraverso finti contratti di compravendita, al fine di ottenere agevolazioni, benefici e terre dalle autorità governative, in virtù del possesso di un numero considerevole di finti contadini. Con modi seducenti e con adulazioni nei confronti dei suoi interlocutori, riesce in breve tempo ad instaurare rapporti amichevoli con i potentati della città in cui si stabilisce, al fine di poter raggiungere i suoi obiettivi economici. E’ un abile millantatore, Cicikov, e riesce a produrre un’impressione positiva anche nelle donne della buona società cittadina, grazie alle sue buone maniere e alla diceria che si portava dietro, cioè di essere un uomo molto ricco, un “milionario”. E le mogli dei dignitari locali - delle cui qualità morali l’autore ha grandissime difficoltà a parlarne, preferendo discettare, invece, del loro modo di vestire, delle loro capacità di rispettare l’etichetta e le convenienze - si lasciano facilmente attrarre dalle ricchezze e dal potere. L’ipocrisia che lo scrittore nota nelle donne aristocratiche, la osserva anche nei lettori che appartengono all’alta società e in quegli individui che dell’alta società credono di far parte, in virtù delle parole francesi e inglesi che sfoggiano con la giusta pronuncia, arrotando la erre come i francesi o facendo la bocca a “culo di gallina” come gli inglesi.

Con una descrizione minuziosa e con una prosa piacevole e sempre ironica e sferzante, Gogol ci presenta una variegata umanità fatta di notabili altolocati e provinciali, di funzionari, di impiegati ma anche di gente umile, tutti rappresentativi della realtà cittadina, burocratica e rurale della Russia degli Zar. Un posto importante nella narrazione occupano i vari proprietari terrieri, cui si rivolge Cicikov per comprare le anime morte, personaggi “difficili da ritrarre” - dice l’Autore - “signori di cui è pieno il mondo, che sembrano tutti simili gli uni agli altri” . C’è quello che emerge per i suoi modi eccessivamente ossequiosi e deferenti, il quale inizialmente appare gradevole all’interlocutore, per rivelarsi, poi, superficiale e noioso. C’è poi l’uomo rozzo, grossolano che somiglia ad un orso nei modi e nell’aspetto, molto attento, però, ai suoi affari, che disprezza tutti coloro che occupano posizioni importanti nella gerarchia statale. Non manca, in questa carrellata di personaggi, il prototipo universale dell’avaro, unico guardiano e custode delle sue ricchezze il quale, pur essendo ricchissimo, conduce una vita misera, alimentata inesorabilmente dalla sua insaziabile avarizia. E come dimenticare, infine, lo spaccone esibizionista, amante della baldoria, dei balli e dei convegni mondani, appassionato di scommesse e di carte, baro, sbruffone e bugiardo, quel soggetto che non scomparirà mai dal mondo, che sarà sempre presente in mezzo a noi, in qualsiasi epoca lo si voglia collocare.

Gogol è veramente sorprendente nel presentarci l’uomo nelle sue quotidiane contraddizioni e aberrazioni, nelle sue passioni e nella sua fragilità, ma anche nelle sue miserie quotidiane e nei suoi vizi; ci descrive il perbenismo, la meschinità e la vanità  dell’animo umano, tratteggiando dei personaggi che, a seconda delle circostanze della vita e sempre per un proprio tornaconto personale, sanno essere forti con i poveri ed i diseredati e deboli con i ricchi ed i potenti, attraverso tutte quelle gradazioni e sfumature del linguaggio, dei gesti e del comportamento che rivelano - di volta in volta – da parte degli stessi, alterigia e arroganza, servilismo  e cortigianeria. Gogol è un grande osservatore, si dimostra prodigo di pungenti ed ironiche osservazioni e descrizioni degli ambienti rurali, ma a volte si ha l’impressione che l’autore voglia trasmettere al lettore anche sensazioni di disgusto e di ribrezzo che si provano di fronte a certe aspetti della realtà. Così, nel descrivere  alberghi e bettole di periferia, fa notare che “per due rubli al giorno i viaggiatori hanno diritto a due metri di cameretta e agli immancabili scarafaggi che come prugne secche fanno capolino dappertutto”, e che le pareti delle stanze adibite a sala da pranzo sono di solito “verniciate a olio, annerite in alto dal fumo e lucidate in basso dalle schiene degli avventori di passaggio”, oppure nel raffigurare il disordine e la sporcizia di una stanza, ritiene significativo far sapere al lettore che “il padrone aveva lasciato sul tavolo uno stuzzicadenti completamente ingiallito con cui si era forse frugato tra i denti prima dell’ingresso dei Francesi a Mosca”.

Con questo libro Gogol riesce a cogliere sapientemente lo spirito dell’epoca in cui è vissuto, ma si dimostra anche un attento studioso dell’animo umano quando afferma che “fino a quando la gente non si preoccuperà della propria ricchezza interiore, smettendola di occuparsi delle cose per le quali ci si azzuffa e ci si sbrana qui sulla terra, non ci sarà nessuna ricchezza e nessun benessere terreno”.

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