“Siamo
canne, e la sorte è il vento”
Non avevo ancora letto nessun
libro di Grazia Deledda, finora l’unica scrittrice italiana ad aver vinto - nel
1926 - il premio Nobel per la letteratura. Icona della nostra identità
culturale nel mondo, sebbene abbia trattato sempre tematiche legare alla sua
terra d’origine, l’autrice sarda appare dimenticata ed emarginata nel panorama
culturale dei nostri tempi.
Leggendo “Canne al vento” (Oscar Mondadori, 1977), forse il suo romanzo più
noto, ho potuto colmare questa mia grave lacuna letteraria, che mi portavo
dietro dai tempi del liceo, quando la Deledda rientrava nei programmi
scolastici. Devo dire, peraltro, che le vicende ivi narrate mi hanno riportato al
libro Sorelle Materassi di Aldo
Palazzeschi, a conferma di una tesi molto suggestiva secondo cui ogni libro
racchiude tra le sue pagine un altro libro, per via di palesi analogie
narrative. Tant’è che mi viene spontaneo domandarmi - nel caso specifico - se lo
scrittore toscano, nel costruire lo schema narrativo della sua opera, non si sia
ispirato al romanzo della Deledda. In entrambi i libri, infatti, la storia
ruota intorno a tre sorelle (zitelle) e al loro esuberante nipote (figlio di
una quarta sorella deceduta); questo nipote, facendo irruzione improvvisamente nella
loro grigia e monotona esistenza, oltre a sconvolgere quel quieto vivere, le
porterà al dissesto finanziario. Naturalmente i luoghi in cui sono ambientate
le storie sono differenti: nel primo caso ci troviamo in un sobborgo di Firenze
nei primi anni del ‘900, in Canne al
vento, invece, scorgiamo la Sardegna arcaica di fine Ottocento. Così come diverso
appare lo stile narrativo: ironico e velato di malinconia crepuscolare quello
di Palazzeschi, realistico e lirico lo stile della Deledda. I due narratori, tuttavia,
sembrano accomunati da uno stesso obiettivo: raccontare un mondo al femminile,
chiuso e insofferente al cambiamento, in cerca comunque di uno sbocco alla sua
perenne insoddisfazione.
Le sorelle Pintor – questo il
nome che esce dalla penna di Grazia Deledda in Canne al vento - sono discendenti di un’antica e nobile famiglia
decaduta. Esse vivono chiuse dentro casa in attesa di mariti degni del loro lignaggio,
asservite a un padre-padrone che le tratta come schiave. “E come schiave esse dovevano lavorare – leggiamo nel libro - fare il pane, tessere, cucire, cucinare,
saper custodire la loro roba: e soprattutto non dovevano sollevare gli occhi
davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato
per loro sposo”. E proprio per liberarsi da quella oppressione, una di loro
era fuggita dalla casa paterna, alla ricerca di libertà e indipendenza e non si
era più saputo nulla di lei. Il fatto aveva destato vergogna e scalpore perché
mai nel paese era accaduto uno scandalo uguale, mai una fanciulla nobile e
beneducata era fuggita così.
Il romanzo è gremito da una
variegata e dolente umanità, esposta alle dure fatiche del vivere quotidiano. Ma
la figura che assume maggiore dignità letteraria, fulcro della narrazione, è
sicuramente il servo fedele (Efix) che oltre a coltivare il podere, unico
sostentamento della famiglia, provvede anche alla protezione delle tre sorelle.
Egli nasconde dentro di sé un segreto (che poi è anche una colpa) che lo divora
e lo tormenta: è l’unico a sapere la verità sulla scomparsa della quarta
sorella e sulla misteriosa morte del loro padre. E con l’arrivo dal Continente
del nipote (Giacinto), tutto sembra precipitare e peggiorare.
La Deledda racconta un mondo
arcaico e fuori dal tempo, sorretto da uno spirito cristiano imbevuto di
superstizione e di peccato, con le sue dure leggi morali; un mondo contratto
nella sua secolare immutabilità e nelle sue rigide e ricorrenti consuetudini:
il lavoro nei campi, le controversie e le difficoltà familiari; e poi le
maldicenze del paese, le feste, i matrimoni e i balli intorno alle chiesette
campestri. E in questa apparente normalità si consuma il doloroso e tragico destino
di una comunità. Come canne al vento.
Rileggevo le tue ultime righe e pensavo che forse, in modo più moderno, certe situazioni ancora oggi sono le stesse: pensavo allo "spirito cristiano imbevuto di….. e di peccato". Ancora oggi una parte della Chiesa e certe aree del Paese, sono legate a superstizioni e leggi del peccato. Salvo poi, ipocritamente, di nascosto fare le cose peggiori ma avendo sempre l'immagine pubblica pulita e soggiogando il popolino con quelle leggi.
RispondiEliminaGrazie per le tue parole che condivido pienamente.
EliminaUna testimone di quel verismo verghiano che in parte mi immalinconisce parecchio, richiami a temi duri e disperati, che fatico a sostenere in lettura.. e per di più - come sottolineava Daniele - ancora appartenenti a strati, e neanche tanto nascosti, di molti nostri ambienti sociali.
RispondiEliminaLa grande letteratura è anche quella che racconta la sofferenza e che, nello stesso tempo, fa soffrire. E' quella che riesce a scuotere le coscienze, che fa riflettere e induce a pensare. Io, per esempio, mi immalinconisco parecchio ogni qual volta passo davanti alla vetrina di una libreria addobbata con i "capolavori" dei soliti volti noti della televisione. Eppure, in quei libri non ci sono "rischiami a temi duri e disperati"... :-) Ciao Franco e stammi bene!
EliminaE' un libro che ho aggiunto alla mia lista di questa Estate, ma il tuo post mi ha messo impazienza e ho più voglia di leggerlo! :-D
RispondiEliminaBenvenuta qui! E spero che la tua "impazienza" di leggere il libro della Deledda soddisfi questa scelta prioritaria. :-) Poi mi farai sapere...
EliminaConciliare impegni e lavoro mi rallenterà nella lettura ma ce la posso fare ;-)
EliminaNe sono sicuro...e poi la lettura richiede lentezza. :-)
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