martedì 4 aprile 2017

Un premio Nobel dimenticato: Grazia Deledda



“Siamo canne, e la sorte è il vento”

Non avevo ancora letto nessun libro di Grazia Deledda, finora l’unica scrittrice italiana ad aver vinto - nel 1926 - il premio Nobel per la letteratura. Icona della nostra identità culturale nel mondo, sebbene abbia trattato sempre tematiche legare alla sua terra d’origine, l’autrice sarda appare dimenticata ed emarginata nel panorama culturale dei nostri tempi.
Leggendo “Canne al vento” (Oscar Mondadori, 1977), forse il suo romanzo più noto, ho potuto colmare questa mia grave lacuna letteraria, che mi portavo dietro dai tempi del liceo, quando la Deledda rientrava nei programmi scolastici. Devo dire, peraltro, che le vicende ivi narrate mi hanno riportato al libro Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, a conferma di una tesi molto suggestiva secondo cui ogni libro racchiude tra le sue pagine un altro libro, per via di palesi analogie narrative. Tant’è che mi viene spontaneo domandarmi - nel caso specifico - se lo scrittore toscano, nel costruire lo schema narrativo della sua opera, non si sia ispirato al romanzo della Deledda. In entrambi i libri, infatti, la storia ruota intorno a tre sorelle (zitelle) e al loro esuberante nipote (figlio di una quarta sorella deceduta); questo nipote, facendo irruzione improvvisamente nella loro grigia e monotona esistenza, oltre a sconvolgere quel quieto vivere, le porterà al dissesto finanziario. Naturalmente i luoghi in cui sono ambientate le storie sono differenti: nel primo caso ci troviamo in un sobborgo di Firenze nei primi anni del ‘900, in Canne al vento, invece, scorgiamo la Sardegna arcaica di fine Ottocento. Così come diverso appare lo stile narrativo: ironico e velato di malinconia crepuscolare quello di Palazzeschi, realistico e lirico lo stile della Deledda. I due narratori, tuttavia, sembrano accomunati da uno stesso obiettivo: raccontare un mondo al femminile, chiuso e insofferente al cambiamento, in cerca comunque di uno sbocco alla sua perenne insoddisfazione.
Le sorelle Pintor – questo il nome che esce dalla penna di Grazia Deledda in Canne al vento - sono discendenti di un’antica e nobile famiglia decaduta. Esse vivono chiuse dentro casa in attesa di mariti degni del loro lignaggio, asservite a un padre-padrone che le tratta come schiave. “E come schiave esse dovevano lavorare – leggiamo nel libro - fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto non dovevano sollevare gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo”. E proprio per liberarsi da quella oppressione, una di loro era fuggita dalla casa paterna, alla ricerca di libertà e indipendenza e non si era più saputo nulla di lei. Il fatto aveva destato vergogna e scalpore perché mai nel paese era accaduto uno scandalo uguale, mai una fanciulla nobile e beneducata era fuggita così.
Il romanzo è gremito da una variegata e dolente umanità, esposta alle dure fatiche del vivere quotidiano. Ma la figura che assume maggiore dignità letteraria, fulcro della narrazione, è sicuramente il servo fedele (Efix) che oltre a coltivare il podere, unico sostentamento della famiglia, provvede anche alla protezione delle tre sorelle. Egli nasconde dentro di sé un segreto (che poi è anche una colpa) che lo divora e lo tormenta: è l’unico a sapere la verità sulla scomparsa della quarta sorella e sulla misteriosa morte del loro padre. E con l’arrivo dal Continente del nipote (Giacinto), tutto sembra precipitare e peggiorare.

La Deledda racconta un mondo arcaico e fuori dal tempo, sorretto da uno spirito cristiano imbevuto di superstizione e di peccato, con le sue dure leggi morali; un mondo contratto nella sua secolare immutabilità e nelle sue rigide e ricorrenti consuetudini: il lavoro nei campi, le controversie e le difficoltà familiari; e poi le maldicenze del paese, le feste, i matrimoni e i balli intorno alle chiesette campestri. E in questa apparente normalità si consuma il doloroso e tragico destino di una comunità. Come canne al vento.

8 commenti:

  1. Rileggevo le tue ultime righe e pensavo che forse, in modo più moderno, certe situazioni ancora oggi sono le stesse: pensavo allo "spirito cristiano imbevuto di….. e di peccato". Ancora oggi una parte della Chiesa e certe aree del Paese, sono legate a superstizioni e leggi del peccato. Salvo poi, ipocritamente, di nascosto fare le cose peggiori ma avendo sempre l'immagine pubblica pulita e soggiogando il popolino con quelle leggi.

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    1. Grazie per le tue parole che condivido pienamente.

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  2. Una testimone di quel verismo verghiano che in parte mi immalinconisce parecchio, richiami a temi duri e disperati, che fatico a sostenere in lettura.. e per di più - come sottolineava Daniele - ancora appartenenti a strati, e neanche tanto nascosti, di molti nostri ambienti sociali.

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    1. La grande letteratura è anche quella che racconta la sofferenza e che, nello stesso tempo, fa soffrire. E' quella che riesce a scuotere le coscienze, che fa riflettere e induce a pensare. Io, per esempio, mi immalinconisco parecchio ogni qual volta passo davanti alla vetrina di una libreria addobbata con i "capolavori" dei soliti volti noti della televisione. Eppure, in quei libri non ci sono "rischiami a temi duri e disperati"... :-) Ciao Franco e stammi bene!

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  3. E' un libro che ho aggiunto alla mia lista di questa Estate, ma il tuo post mi ha messo impazienza e ho più voglia di leggerlo! :-D

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    1. Benvenuta qui! E spero che la tua "impazienza" di leggere il libro della Deledda soddisfi questa scelta prioritaria. :-) Poi mi farai sapere...

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    2. Conciliare impegni e lavoro mi rallenterà nella lettura ma ce la posso fare ;-)

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    3. Ne sono sicuro...e poi la lettura richiede lentezza. :-)

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