Mi piace girovagare per le
stradine dei piccoli paesi del Cilento. Sia in macchina che a piedi. Lo faccio
soprattutto durante l’estate e comunque ogni qualvolta mi capita di ritornare
là dove vivono le mie origini meridionali, impaziente come sono di immergermi
in una realtà ancora a misura d’uomo. La cosa che sempre mi incuriosisce, passando
per quei borghi avvolti nel silenzio, è osservare come alcune persone -
perlopiù anziani contadini – trascorrano quasi tutta la giornata seduti davanti
alla porta di casa, in piacevole solitudine. Quando ne incontro qualcuno, lo
osservo e mi accorgo, dalla sua faccia incredibilmente serena, che per “vivere”
non ha bisogno – come noi moderni cittadini - di leggere libri, o di viaggiare
o di conoscere gente o di cazzeggiare con
un telefonino o di vestire alla moda o di avere mille impegni. Niente di tutto
questo. Lui se ne sta seduto in compagnia di se stesso, senza annoiarsi, senza
stress e senza affanni, mentre il tempo scorre uniforme sulla sua esistenza, seguendo
le stesse abitudini tutti i giorni, ignaro di un mondo diverso che sta altrove
ed a cui non appartiene. E ogni piccolo imprevisto, ogni minima distrazione,
come un passante che si avventura dalle sue parti e gli rivolge la parola, possiede
ai suoi occhi la straordinaria capacità di destarlo da quella stagnante
monotonia che lo avvolge e di cui non sembra esserne consapevole. Lo saluto,
scambio qualche parola augurandogli lunga vita e mi risponde con il suo volto
sorridente ed ironico: “qua non succede mai niente”. Eppure, quel “niente” che
gli offre il paese in cui vive, naturale bagaglio della sua condizione umana ed
esistenziale, lo rende ugualmente felice. E appare molto più felice di me che invece
vivo attorniato dal “troppo”. Me lo rivela quel suo sguardo incredibilmente
sereno e soddisfatto, abituato al lento e monotono scorrere delle stagioni. Mi
viene da pensare che il “niente” o il “vuoto” che tanto terrore genera in chi è
abituato al “pieno” (di telefonate…di oggetti…di immagini…di informazioni…di
tecnologie) sia una condizione che non crea alcuna angoscia alle anime semplici.
Fernando Pessoa, nella sua
celebre opera letteraria “Il libro dell’inquietudine” scriveva: “Il saggio è colui che riesce a rendere
monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il
privilegio di stupirlo”.
Per chiarire questo suo
pensiero fondato sulla monotonia delle “vite
comuni”, il grande scrittore portoghese prendeva ad esempio due figure: il cuoco
e il cameriere in servizio presso un dozzinale ristorante dove lui pranzava
tutti i giorni. E osservandoli, si chiedeva smarrito: “che vita è la vita di questi uomini?” . Notava che il primo, trascorreva
quasi tutta la sua giornata in una cucina, gli erano consentite solo brevi
pause, non andava mai al teatro e da quarant’anni non si era mai allontanato da
Lisbona; il secondo, tutte le mattine alla stessa ora, gli posava davanti quello
che poteva essere “il milionesimo caffè” servito
alla clientela. E nel provare “spavento e
pena e sdegno” per quelle persone che conducevano la stessa vita apparentemente
piatta e incolore, ripetendo sempre gli stessi gesti con esasperante monotonia,
Pessoa si accorgeva che non provavano “spavento
né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto”. Le
loro facce, anzi, esprimevano tutte le mattine una soddisfatta felicità. Per sospendere
quella ripetitività, quel tran tran quotidiano, a quel cuoco bastava un piccolo
incidente stradale, una rissa nella strada, insomma una qualsivoglia distrazione,
anche la più irrilevante, per procurargli l’illusione di essere catapultato in
una situazione magica ed interessante. Episodi, questi, che lo richiamavano con
curiosità sulla porta del suo ristorante e lo intrattenevano più di quanto la
contemplazione di un’opera d’arte o la lettura di un bellissimo libro potessero
intrattenere lo scrittore portoghese. Insomma, cambiando il contesto, è ciò che
accade al contadino cilentano seduto dinanzi alla sua porta di casa. Ma se la
vita è fatta di monotonia, ovunque si manifesti – in un
ristorante di Lisbona o in un paesino del Cilento - quel cuoco “continua a sfuggire alla monotonia più
facilmente di me – diceva Pessoa. E secondo me anche quel contadino. E poi
aggiungeva “La verità non è sua e non è
mia perché la verità non è di nessuno; ma la felicità è sicuramente sua (…) Un
uomo se possiede la vera sapienza, può godere l’intero spettacolo del mondo
seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto
con l’uso dei sensi e il fatto che l’anima non sappia essere triste”. Tre
secoli prima lo stesso concetto fu espresso da Pascal, quando scrisse che “tutta l’infelicità degli uomini proviene da
una sola cosa, non sapersene stare in pace in una stanza” .
però mi chiedo se il vecchio seduto al sole del Cilento o il cuoco di Pessoa siano davvero felici e non piuttosto saggiamente rassegnati anon aspettarsi altro dalla vita.
RispondiEliminamassimolegnani
La tua ipotesi è naturalmente legittima e condivisibile. Il contadino e il cuoco presi in esame, però, vivono la loro saggia rassegnazione senza particolari drammi esistenziali. Senza angosce. E questa è la forza che dà loro serenità. Forse nemmeno si rendono conto che vivono in una sorta di "vuoto". A noi succede, invece, abituati a vivere nel "troppo pieno" (condizione che secondo me ormai affligge la società in cui viviamo), se una mattina - per esempio - dimentichiamo il cellulare, oppure nessuno ci chiama, ci sentiamo subito fuori dal mondo e andiamo nel panico. In una situazione estrema, il contadino del Cilento e il cuoco di Pessoa si salverebbero, grazie alla loro saggezza di vita e noi periremmo, perché abbiamo smarrito la semplicità del vivere. Siamo alla ricerca perenne di qualcosa che possa renderci felici. Ma non sappiamo che cosa.
Eliminapienamente d'accordo, rassegnazione priva di drammi esistenziali, non per niente avevo aggiunto l'avverbio "saggiamente"
Eliminaun saluto,
ml
Ciao Carlo. E grazie
EliminaA leggere il post sembrerebbe, così tanto per semplificare, che la felicità appartenga solo alle "anime semplici", a chi non sa leggere, come diceva Pessoa o a chi se ne sta seduto in una stanza, come diceva Pascal...:-) Ciao. Piero
RispondiEliminaCiao Piero, mi hai fatto sorridere. E' un po' una forzatura pensare che per essere felici bisogna vivere di solo istinto. Comunque ti rispondo con Qohèlet che diceva : "molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore". E' chiaro, però, che non possiamo fare a meno della conoscenza e del sapere, altrimenti regrediremmo. Non possiamo impedire alla nostra testa di pensare. La sofferenza, così come quel poco di piacere o di gioia che riusciamo con fatica a conquistare, anche attraverso la lettura di un libro, fanno parte della vita e sono il frutto della nostra intelligenza. Un saluto
Eliminabuongiorno Remigio,
RispondiEliminaquesto tuo splendido post mi ha fatto venire in mente tre frasi che ormai appartengono un po' a tutti gli "stressati": "contro il logorio della via moderna (spot Cynar)", "staccare la spina", "prendersi una pausa di riflessione". Ecco... forse felice è colui che non conosce tali affermazioni.
Buongiorno a te Tads,
Eliminae grazie per le tue parole che condivido. E' proprio vero, se dobbiamo ricorrere a un "qualcosa" per risollevarci ed essere felici, allora significa che ci troviamo già sulla strada sbagliata e non bastano dieci bottiglie di Cynar. :-)
Conosco bene il Cilento
RispondiEliminaDiverse volte per lavoro e finalmente l'estate scorsa in vacanza
Spero che il soggiorno nel Cilento sia stato di tuo gradimento. Un saluto
EliminaOttimo!
EliminaMi fa piacere :-)
EliminaRiflessioni che ho fatto anch'io ogniqualvolta mi sono imbattuta in questa umanità seduta sulla soglia di casa.
RispondiEliminaHo sempre provato invidia per quella sorta di rassegnazione tranquilla.
Ricordo un pomeriggio in un Borgo medievale toscano. Eravamo in giro con due figli nel passeggino è queste donne sulla soglia si misero a fare complimenti alla più piccola, che aveva due braccine così paffute da sembrare quelle dell'omino della Michelin.
Feci una foto.
E' proprio quella "tranquilla rassegnazione" che li rende sereni. Ciao Silvia
EliminaMolto bello. Bravo.
RispondiEliminaGrazie Enzo. Sei troppo buono!! :-)
RispondiEliminaDi una cosa sono convinta: una buona dose dello stress che cib stravolge e travolge la vita ci serve per distrarci da noi stessi.
RispondiEliminaMolti di noi avrebbero il terrore di rimanere più di cinque minuti su quella panchina...
In qualche maniera ne sono convinto anch'io. Penso, comunque, che se abbiamo giustamente paura del vuoto (horror vacui), dobbiamo cominciare a temere anche il pieno (horror pleni).
Elimina