“...Nessuno aveva fiducia nelle Istituzioni, né mai l’aveva avuta. La
corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato
ingenuo o matto, impostore o ambizioso chiunque si levasse a gridarle contro ”.
Sembra essere l’estrema e lucida analisi delle vicende politiche dei nostri
tempi; invece è ciò che si legge nel bel romanzo di Luigi Pirandello “ I vecchi e i giovani” (Newton Compton
Editore), scritto all’inizio del secolo scorso. Nulla dunque sembra cambiato, o
meglio, tutto cambia affinché nulla si modifichi, secondo il famoso detto
gattopardesco.
Il romanzo, ambientato nella
Sicilia post-unitaria del 1890, racconta le vicende di una ricca e nobile
famiglia agrigentina composta da tre fratelli, da anni in rotta tra di loro, il
cui capostipite - il sessantacinquenne principe Don Ippolito Laurentano - viveva come un esiliato - fin dal 1860 -
nel suo feudo, protetto da una guardia di venticinque uomini con la divisa
borbonica, proprio per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo del
Regno delle Due Sicilie. Il fratello Don
Cosmo, poco più giovane di Don
Ippolito, era invece un uomo votato agli studi di filosofia e, almeno
apparentemente, non si era mai schierato né con i Borbone né con il nuovo
Governo. Poco interessato agli affari ed ai commerci del suo feudo, può essere
visto come l’alter ego dello scrittore. Costui viveva lontano dagli affanni e
dalle miserie dell’esistenza umana perché avvertiva “la
vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita”, trascorreva le sue giornate solitarie con
distacco e disincanto, perché “la vita
comune non riusciva a penetrargli nella coscienza con tutti quegli infingimenti
e quelle arti e quelle persuasioni che spontaneamente la trasfigurano agli
altri”. A chiudere il quadro familiare era la sorella Donna Caterina,
vedova di un eroe garibaldino morto nella battaglia di Milazzo, la quale,
rifiutando sdegnosamente gli aiuti economici del fratelli, trascorreva la sua
modesta vita con la figlia (anch’essa vedova) in una vecchia e triste casa a
Girgenti.
Le vicende si sviluppano intorno
a due importanti avvenimenti che caratterizzarono la vita politica e sociale di
quegli anni, ossia – da una parte - lo scandalo politico-finanziario della
Banca Romana (uno dei sei istituti che all’epoca erano abilitati ad emettere
moneta in Italia), in cui furono coinvolti anche alcuni membri del Governo,
colpevoli di aver abusato del loro ruolo istituzionale per affari illeciti, e –
dall’altra - la crisi che investì le miniere di zolfo in Sicilia, che portò a
scontri durissimi tra i lavoratori riuniti in Fasci e le forze dell’ordine. Intorno
alla famiglia Laurentano ruotano una moltitudine di altri interessanti
personaggi, rappresentativi della variegata e complessa società della Sicilia
post unitaria: c’è il facoltoso e scaltro uomo d’affari; c’è il proprietario di
terre e di miniere di zolfo; c’è il principe che si serve del suo amico
deputato per poter sbrigare meglio i suoi affari e arricchirsi a scapito
dei più deboli; c’è l’esponente della
borghesia capitalista; c’è l’operaio sfruttato…
Il libro - che va inquadrato nel
filone dei grandi romanzi storici del Risorgimento italiano, come “I Vicerè” di Federico de Roberto, “l’Alfiere” di Carlo Alianello e “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa –
può essere letto come un documento, se non proprio di accusa, comunque di
critica al Risorgimento italiano, i cui protagonisti (i vecchi) non avevano saputo portare avanti quegli ideali di
progresso e di unità per i quali avevano combattuto, sopraffatti dagli scandali
finanziari e dagli interessi privati. D'altra parte non avevano saputo fare di
meglio i loro figli (i giovani),
anch’essi contagiati dal malaffare e dalla disonestà a scapito delle classi più
povere e dei lavoratori delle miniere, i quali, seppure riuniti in “Fasci” per
rivendicare i loro diritti, finirono per essere annientati e ridotti alla
miseria. Insomma, un confronto/scontro tra due generazioni. Mentre la Sicilia
tutta veniva sconfitta e calpestata dagli eventi e dal nuovo Governo, quella
terra che “sola, senza patti, con impeto
generoso s’era data all’Italia e in premio non aveva avuto altro che la miseria
e l’abbandono”.
L'ho letto tanti anni fa. Ma ricordo poco...
RispondiEliminaS.
E allora, quale migliore occasione per rileggerlo. :-)
EliminaAnche io l'ho letto e apprezzato qualche tempo fa.
RispondiEliminaun saluto
Ok. Ciao
EliminaGrande romanzo. Alex
RispondiEliminaBenvenuto qui, Alex
Eliminatu operi come un minatore nelle miniere di zolfo, ti addentri nelle gallerie meno battute, scavi, trovi il minerale lo ripulisci e lo accendi a farci illuminare.
RispondiEliminaml
Sorrido... Davvero interessante questo accostamento al minatore e ti ringrazio. E' un mestiere difficile e faticoso quello del "minatore", però custodisce molte soddisfazioni. Oggi però nessuno cerca il "minerale", nessuno scava. Meglio comprare i "fiammiferi" direttamente dal tabaccaio...:-) Ciao Carlo e un caro saluto.
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