Avevo sentito parlare tante
volte di Vasco Pratolini, ma non avevo ancora avuto l'occasione per leggere questo
bravissimo autore, nato a Firenze nel 1913 e morto a Roma nel 1991. Ho colmato
questa mia lacuna – diciamo così - attraverso la lettura de “Il Quartiere” che,
pur non essendo il suo libro più importante, riveste tuttavia una sua rilevanza
letteraria in quanto abbraccia quella tematica tanto cara allo scrittore
fiorentino: i giovani e la loro difficile condizione sociale ed economica,
appartenenti alle classi sociali più umili, colti nel passaggio cruciale dall’adolescenza
alla giovinezza ed alle prese con i loro sentimenti ancora acerbi. E sono
sentimenti semplici ed eterni come l’acqua che sgorga dalla fontana
dissetandoli, senza che possano percepirne il sapore, o come il pane di cui si
nutrono senza conoscerne la composizione.
La storia non è lineare e non
è facile poterne riassumere la trama perché tanti sono gli episodi, gli amori,
le amicizie che si intrecciano e si disfano in quel luogo corale di
affetti e di esperienze comuni che è il quartiere. Eugenio Montale, all’uscita
dell’opera, lo definì “un romanzo di
ragazzi, e non per ragazzi”. La voce narrante del romanzo è quella di Valerio
– che si definisce uno scrittore – che ama Luciana (o meglio, lui lo crede e lo
spera), però gli piace anche Marisa, la quale aveva già avuto diversi fidanzati,
a cui fa la corte Carlo, il più cattivo del gruppo, tant’è che irride la
timidezza di Valerio. Maria, la sorella di Arrigo, che era stata per diverso
tempo il pensiero peccaminoso di Valerio, si sposerà con Giorgio, il più grande
del gruppo, mentre Arrigo convolerà a giuste nozze con Luciana. Poi incontriamo
Gino…Olga…Berto…e tanti altri. Una comunità di ragazzi che viveva nel quartiere
di Santa Croce a Firenze, negli anni in cui il Fascismo non lasciava molto
spazio alla libertà e alle iniziative di nessuno. Erano figli di operai,
falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici che abitavano in case buie, umide e
fredde d’inverno, ma pulite ed in ordine. La loro vita si svolgeva nelle strade
e nelle piazze del quartiere. Divisi in gruppi, secondo le amicizie, le
affinità, le occasioni, sognavano una esistenza migliore, resistendo nella
propria casa e nel proprio quartiere, contenti di essere amici. “Eravamo creature comuni – dice uno dei
personaggi del libro - ci bastava un
gesto per sollevarci collera o amore. La nostra vita scorreva su quelle strade
e piazze come nell’alveo di un fiume (…) Avevamo imparato a fare un viluppo dei
nostri affetti, intrecciati l’uno all’altro da privati rancori, da private
dedizioni”.
Un romanzo che si legge velocemente,
scritto con una prosa fluida e vivace, a volte velato di leggera malinconia. E’
l’affresco di un microcosmo che non esiste più, rappresentativo di una
generazione molto diversa da quella attuale i cui componenti, tra dubbi, certezze e contraddizioni, pur vivendo in un’epoca in cui le ristrettezze
economiche, la guerra e le difficoltà costituivano pane quotidiano, tuttavia
non disperavano. E visti i tempi particolarmente complicati che oggi si ritrovano a vivere i nostri giovani – tempi
forse meno bui di quelli che furono – direi che “Il quartiere” può essere letto
come un inno alla speranza.
Leggendo la tua recensione ritrovo la stessa atmosfera di un altro romanzo di Pratolini, cronache di poveri amanti, anch'esso incentrato sulla vita di un quartiere abitato da povera gente.
RispondiEliminamassimolegnani
Credo sia una tematica ricorrente in tutte le opere di Pratolini. D'altra parte lo stesso scrittore proveniva da una famiglia di umili condizioni di un quartiere popolare di Firenze. Ciao Carlo
EliminaPenso che la maggiore difficoltà nell'avvicinarsi a questo genere di romanzo/i, sia rappresentata proprio dalla distanza tra il mondo narrato e quello attuale.
RispondiEliminaSai, non mi riferisco solo alle condizioni storiche intese in senso stretto, bensì a quella particolare disposizione dell'animo che nasce dal frequentarsi "solo direttamente", vale a dire vedendosi o scrivendosi, impegnandosi cioè in prima persona senz'avarizia di sé, senza scorciatoie o abbreviazioni in stile sms, tanto per fare il solito esempio.
Chi di noi, giovane o meno, può vivere più così direttamente il rapporto con gli altri/coetanei o non?
La vita di gruppo e il "viluppo dei nostri affetti, intrecciati l’uno all’altro da privati rancori, da private dedizioni"- come scrive Pratolini- è una tonalità del rapporto interpersonale ormai impraticabile: il gruppo oggi è mero numero, non vita di relazione condivisa, che poi è come dire sogni e speranze, anche frustrate, messe in comune.
Ai giorni nostri esiste una vita di gruppo tra gli adolescenti, ma il rapporto tra di loro è totalmente diverso rispetto al passato. Basta osservare il comportamento di questi ragazzi. La cosa che più colpisce è la loro assenza dal contesto in cui si trovavano. La totale estraneità al gruppo ed agli amici che hanno intorno è fin troppo evidente. Tutti smanettano su un telefonino, il loro amico più affidabile e sicuro. Appaiono annoiati, distanti tra di loro: non è importante chi gli sta vicino ma chi si trova altrove. Presenti, ma simultaneamente assenti gli uni agli altri.
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