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mercoledì 8 giugno 2016

Passione e delitto in una Sicilia crudele



Il romanzo verista nacque e si sviluppò in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, sull’esempio del naturalismo francese. Può essere letto come una sorta di strumento di analisi sociale che si ispira al mondo reale e che racconta, innanzitutto, vicende legate alle difficili condizioni di vita delle classi più umili del Mezzogiorno d’Italia. Gli scrittori siciliani Luigi Capuana, Giovanni Verga e Federico de Roberto sono considerati i maggiori interpreti del verismo italiano. In particolare il Capuana, utilizzando una sottile e profonda analisi introspettiva dei suoi personaggi, scruta le inquietudini, le ossessioni e le paure da cui gli stessi sono tormentati e racconta storie realmente accadute o comunque legate in qualche maniera a luoghi e realtà del territorio siciliano.
“Il marchese di Roccaverdina”, pubblicato nel 1901, è da tutti considerato il suo autentico e indiscusso capolavoro letterario. Un libro che (ahimè!) non avevo letto e di cui portavo solo lontani ricordi scolastici legati, appunto, allo studio del verismo italiano. Credo che il testo sia fuori produzione e, pertanto, non me lo sono lasciato sfuggire quando l’ho intravisto (un po’ ingiallito) sui banchetti di un mercatino dell’usato, nella prima edizione edita da Garzanti nel 1970. E devo dire che - a lettura ultimata - il mio giudizio sull’opera resta decisamente positivo. Lo consiglio, pertanto, agli amanti della buona letteratura, anche se non è mia abitudine dare suggerimenti per gli acquisti. Sempre che riusciate a trovarlo, naturalmente!

Il protagonista del romanzo è un aristocratico proprietario terriero che vive in solitudine, arroccato nel suo vecchio palazzo sulle pendici di un paesino nella Sicilia di fine Ottocento. Viene accudito come un figlio, da più di quarant’anni, da una vecchia nutrice che lui chiama affettuosamente mamma Grazia. Gli fa spesso visita il suo avvocato, Don Aquilante, “che pretendeva di vedere gli spiriti e di parlare con loro”, a cui affida tutte le sue liti e tutti i suoi affari. E poi di tanto in tanto viene a trovarlo il cavalier Pergola, suo cugino, “il baldo bestemmiatore, il feroce odiatore d’ogni religione e dei preti” che gli prestava qualcuno dei suoi libri proibiti che lui legge “per fortificarsi, quando i suoi convincimenti vacillavano”; e poi  non mancano le visite dello zio don Tindaro, fiero della sua collezione di vasi antichi e di statuette e di Don Silvio, il prete del paese, custode di un terribile segreto. Il marchese ama comandare ed essere ubbidito, ed ama in maniera quasi viscerale le sue terre  ma non i contadini che le lavorano, da lui trattati come schiavi. Ha in mente grandi progetti agrari che vuole attuare sfruttando i suoi possedimenti terrieri.
I guai esistenziali ed i tormenti interiori di questo signorotto iniziano il giorno in cui decide - con un vero e proprio atto di forza che scaturisce dal suo potere - di far sposare la bella e fedele donna di servizio (Agrippina Solmo) -  sua amante da oltre dieci anni - al devoto fattore (Rocco Criscione), il quale si impegna sotto giuramento a trattarla come una sorella e quindi ad essere suo marito soltanto di nome e non di fatto. Antonio Schiradi, marchese di Roccaverdina, con questo espediente – pur continuando ad avere a sua disposizione la giovane amante - intendeva salvare le apparenze e porre fine ai mugugni dei suoi familiari, i quali temevano che potesse sposarla infrangendo così quella regola sociale secondo cui un uomo del suo rango non doveva né poteva sposare una donna di umili condizioni. Ma il sospetto che i due non mantengano i patti comincia ad infiltrarsi nell’animo del marchese ed a corrodere inesorabilmente la sua mente. Egli, pensando all’infame tradimento che quei due ingrati e spergiuri gli avevano fatto o stavano per fargli, all’improvviso si sente sfuggire di mano la situazione e un pensiero fisso inizia a ribollire nel suo cervello offuscandogli la ragione. E quando crede, in base alle sue vere o false supposizioni, di non poter più dubitare, quando si accorge che la gelosia non gli dà più tregua e sembra ormai divorarlo, uccide a tradimento il suo fattore. Il delitto e la successiva condanna di un uomo innocente (che morirà in carcere) finiscono per generare nel marchese profonde inquietudini e laceranti rimorsi che cominciano a perseguitarlo in ogni momento della sua giornata. La sua volontà, la sua fierezza di uomo potente sembrano affievolirsi, logorate da quell’intima voce che minaccia di elevarsi tanto più forte, quanto più egli cerca di soffocarla, tant’è che “egli provava la strana sensazione di camminare su un terreno poco solido, che avrebbe potuto da un momento all’altro sprofondarglisi sotto i piedi. (…) Quando s’immaginava di aver domato o vinto quel tormentoso nemico interiore, lo vedeva insorgere, tornare all’assalto più vigoroso e più insistente di prima. Ogni tregua riusciva illusoria; ogni mezzo messo in opera, un palliativo che lo calmava per qualche tempo ma non guariva radicalmente”. Per dimenticare, decide di iniziare una nuova vita sposando la donna che era stata la sua passione giovanile con l’intendimento di mescolarsi con gli altri e di non stare più da solo, come aveva fatto fino a quel momento. Inoltre, vincendo la sua ripugnanza per la politica, decide anche di partecipare come candidato all’elezione del Sindaco del paese. Ma tutto sembra vano.
Ci sono aspetti autobiografici in questa vicenda, anche se nella realtà non si è verificato alcun delitto. Infatti il Capuana – come si legge su Wikipedia – “ebbe una relazione amorosa con una ragazza analfabeta, Giuseppina Sansone, che era stata assunta come domestica dalla sua famiglia. Da questa relazione nacquero parecchi figli, che finirono però tutti all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone. Non era infatti pensabile a quell'epoca che un rispettabile borghese riconoscesse come suoi i figli nati dalla relazione con una donna di bassa estrazione sociale. La “Beppa di Don Lisi” rimase con lui fino al 1892, quando, proprio per volontà dello scrittore, sposò un altro uomo”.
Usando un linguaggio il più possibile aderente al mondo rappresentato e con uno stile asciutto, trascinante e del tutto impersonale, Luigi Capuana ci offre un grande libro, un affresco crudo e realistico della società e del sottosviluppo economico e culturale della Sicilia di fine Ottocento. Ma soprattutto lo scrittore siciliano, nel descrivere lo scavo psicologico del protagonista, con notevole abilità narrativa, riesce a coinvolgere emotivamente il lettore nel dramma umano ed esistenziale del suo personaggio.

10 commenti:

  1. Ho letto con piacere questa recensione di un libro che parla della Sicilia di fine ottocento, perché sono appena tornato da un breve viaggio nella Sicilia d'oggi. Credo che nelle grandi città (Siracusa, Catania, Noto, Modica, Ragusa, i luoghi che ho visitato)sia rimasto ben poco delle tradizioni e delle abitudini dei signorotti di cui parla Capuana, quel che è rimasto è lo splendore barocco dei palazzi (una volta restaurati) dove quei signorotti vivevano. Di sicuro un tempo nelle segrete stanze di quei palazzi le vicende raccontate da Capuana erano la norma. Storie del genere me le hanno raccontate gli amici siciliani che oggi vivono a Milano e che hanno accompagnato me e mia moglie alla scoperta di quella strana quanto magnifica isola.
    Cordiali saluti.
    Nicola

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    1. Sono stato in Sicilia diversi anni fa e ricordo con piacere quel viaggio. Conto di ritornarci appena possibile. E' proprio vero: i signorotti che vivevano nella Sicilia di fine Ottocento ne hanno fatte di cotte e di crude. In compenso "abbiamo ereditato" palazzi meravigliosi, ricchi di storia e di arte. Un caro saluto

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  2. Mi capitò di provare a leggere da giovanissima qualche esempio di letteratura verista italiana, complici gli studi universitari di mia sorella, maggiore di me di non pochi anni.
    In particolare, per quel che ricordo, lessi qualche cosa di Emilio De Marchi, più qualche brano qui e là di Capuana e molto Verga...posso dirla tutta? non mi sono mai piaciuti, anche se ci ho messo del tempo per capire a fondo il perché: li percepivo come scrittori di orizzonti limitati, borghesi dediti al culto della rispettabilità, valore in contrapposizione netta con "il fuoco della passione che tutto divora"(ovvio che le mie espressioni sono dettate da un tentativo di adattamento allo spirito dell'epoca)
    E quando parlo di orizzonte limitato lo dico anche in senso geografico: troppa caratterizzazione regionalistica, si fa fatica ad immaginare un pensiero di genere complesso, di valore universale in senso esistenziale.
    Ma questa è la mia opinione, del resto ho sempre rigettato anche Moravia...so' un casino, che ce posso fà?
    ;-))

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    1. Grazie per le tue riflessioni. Vedi, a volte la scuola certi libri te li fa odiare e ricordo che da studente mi rifiutavo di leggerli, perché li percepivo come delle imposizioni. E infatti, pur studiando il verismo, a quei tempi mai mi sarei appassionato ad un libro come il Marchese di Roccaverdina. Oggi, a distanza di tanti anni, non solo l’ho gradito, ma credo che potrei addirittura rileggerlo fra qualche tempo. Evidentemente anche i libri hanno i loro tempi di lettura. “Scrittori di orizzonti limitati”, così li definisci questi autori che, mi par di capire, non ti entusiasmano molto. Forse è vero, perché le vicende narrate sono legate al territorio di appartenenza (in questo caso la Sicilia). E’ pur vero, però, che in questi libri spesso troviamo temi universali, seppure tagliati in un contesto regionalistico, che rendono comunque i loro autori degni di universale attenzione. Per quanto riguarda, poi, Moravia, di cui ho letto quasi tutti i suoi romanzi – visto che lo hai tirato in ballo – devo dire che è stato uno scrittore di culto negli anni 70/80, anche se – dopo aver letto il romanzo di esordio, “Gli indifferenti”, il suo capolavoro letterario - si ha l’impressione di conoscere tutta la sua opera, perché i libri che sono venuti dopo sembrano la prosecuzione del primo.

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  3. Sono sicura che mi piacerebbe...ma mi pare un'impresa trovarlo!

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    1. Sono un assiduo frequentatore di mercatini dell'usato: si spende poco e si trovano ottimi libri

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  5. Si, per altro dopo le feste, nei mercati dell'usato si trovano libri intonsi!

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    1. E' proprio vero: a volte certi libri non vengono mai aperti

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