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martedì 15 marzo 2016

Bartleby lo scrivano: il paladino della ribellione




 
 
Io credo che nessun altro libro si presti a così tante  interpretazioni come “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville. E’ una figura davvero enigmatica quella che esce dalla penna dello scrittore statunitense, che rimanda al teatro dell’assurdo ed ai suoi strampalati personaggi. Penso a Vladimiro ed Estragone ed ai loro assurdi comportamenti descritti da Beckett nella sua opera più famosa “Aspettando Godot”. Penso a Meursault, l’assurdo personaggio di Camus nel romanzo “Lo straniero”  - anch’egli impiegato come Bartleby – che vive nella più completa apatia verso se stesso e il mondo, il quale dopo aver ucciso una persona senza motivo, viene condannato in un contesto inquietante ed irreale. E come non ricordare “Il processo” di Kafka il cui protagonista, impiegato pure lui - quasi a voler significare che la categoria degli impiegati sia quella più idonea a raffigurare l’assurdità degli atteggiamenti dell’animo umano - viene accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi ed incomprensibili e finisce per accettare la condanna per una colpa non commessa e persino ignorata.
 
Di Bartleby sappiamo solo che è un copista (ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento) e che lavora alle dipendenze di un avvocato commercialista, incettatore di titoli azionari a Wall Street, la cui figura – come viene descritta dal suo datore di lavoro - è “scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta”. A prima vista appare come un lavoratore instancabile, che non si concede mai una pausa, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela, sempre chino sui suoi documenti in assoluto silenzio, che ha fatto dell’ufficio in cui lavora la sua casa e la sua permanente dimora, nutrendosi solo di biscotti allo zenzero. Ma guai a chiedergli qualcosa, perché lui risponde sempre con la solita frase: “avrei preferenza di no”. Non esce altro dalla sua bocca, si rifiuta di fare qualsiasi cosa gli venga richiesta, che non sia il suo abituale lavoro. L’avvocato – che nel libro è la voce narrante - riavutosi dall’iniziale sbigottimento, lo accetta così com’è, pur provando nei suoi confronti sorpresa e sconcerto, sino a rendersi docile complice delle sue stranezze. E’ veramente disarmante, quel rifiuto, quella passiva resistenza agli ordini, quel chiudersi nel suo riserbo subito dopo aver manifestato la sua volontà di astenersi da ogni impegno, attraverso quell’unica frase usata come un ritornello, pronunciata sempre al condizionale con garbo e con gentilezza, quasi a scusarsi per quel suo desiderio di rinuncia.
Bartleby incarna, a mio modo di vedere, il paladino della ribellione, colui che combatte il potere coercitivo dominante. Il suo modo di fare e di comportarsi rompe un equilibrio consolidato dalle regole e dalle abitudini. La sua è una sfida muta contro il mondo che lo circonda, la sua arma micidiale è rappresentata dal suo diniego : “avrei preferenza di no” che senza scomporsi, con grande tranquillità, afferma ogni qualvolta il suo capo intende far prevalere la sua volontà, i suoi ordini. E’ una frase, quella pronunciata da Bartleby - nell’impassibilità del suo contegno - che sconvolge e disarma nello stesso tempo l’interlocutore, il quale finisce per adattarsi a quel misterioso potere che esercita lo strano copista da cui non riesce del tutto a sottrarsi, fino a diventare la sua ossessione, il suo incubo.
In un’America sempre più affaristica, il comportamento di Bartleby appare molto vicino alle tesi sostenute da David Thoreau, il ribelle per antonomasia, il precursore della disubbidienza civile, che descriveva un’America diversa, distaccata e serena, non incalzata dal consumo e dalla produzione industriale; un paese in cui non tutto poteva essere tradotto in denaro, che condannava l’iperattivismo del mondo del lavoro, pienamente convinto che la volontà di dominio  sugli uomini non rappresentava l’unico scopo della vita.
Con il suo bizzarro personaggio, Melville sembra voglia anche proiettarci  in un mondo quasi surreale, dove si è liberi di fare o non fare, di avere un determinato comportamento piuttosto che un altro, senza vincoli di sorta, tanto il mondo va avanti lo stesso, dove le parole non servono, perché basta una sola frase, come quella pronunciata da Bartleby, per stabilire le distanze e risolvere i problemi senza affrontarli, un mondo dove è inutile affannarsi per capire l’animo umano, tanto l’animo umano è insondabile.
 
 

 

 

3 commenti:

  1. sempre interessanti le letture che proponi, qui mi tenti con lo scrivano e con lo straniero :)
    massimolegnani

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    1. A mio modo di vedere sue due classici della letteratura mondiale, inquadrati in un contesto narrativo molto particolare. Grazie Carlo e buona giornata :-)

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