Fontamara è un immaginario
paesino dell’Abruzzo, metafora di quel Sud povero e abbandonato da Dio e dallo
Stato; ricorda profondamente i luoghi in cui visse lo scrittore abruzzese
Ignazio Silone, il quale, attraverso la sua immaginazione e con l’aiuto dei
suoi ricordi giovanili, diventa l’io narrante di questo suo romanzo: Fontamara. Sono i contadini, quelli che
comunemente venivano chiamati cafoni, i protagonisti autentici della storia,
che assurgono - forse per la prima volta - a paladini della giustizia e della
rivolta. Quegli umili braccianti che non cantavano mai, neanche quando erano
allegri, ma che volentieri bestemmiavano; e imprecavano non solo quando la
sorte era loro avversa, ma anche quando dovevano esprimere una emozione, una
gioia, o manifestare la propria devozione.
E’ un romanzo corale dove
troviamo, da una parte, i “cafoni/contadini”, con le loro storie intrise di
miseria, superstizione e ignoranza e, dall’altra, i “cittadini”, che sono poi
le persone altolocate che più contano nel paese: il podestà, l’avvocato, il
medico, il farmacista, il prete, il proprietario terriero. Queste due categorie
di persone convivono nello stesso paese, ma non si incontrano mai, perché un
cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi, perché sono due cose
differenti. Troppe cose li dividono. Una in particolare: la cultura. Silone fa
dire ad un suo personaggio che “non serve
avere ragione se manca l’istruzione per farla valere”. Infatti i cittadini trovano
sempre il modo per imbrogliare i cafoni, per raggirali, per ridurli al silenzio
attraverso semplici parole di difficile comprensione. Un po’ come il latinorum
di manzoniana memoria, in bocca a Don Abbondio. Ma i cafoni di Fontamara,
poveri e ignoranti, che avevano sopportato sempre qualsiasi vessazione come una
sorta di destino divino, possedevano mille
buone ragioni per ribellarsi ai potenti del paese. Ed infatti insorsero il
giorno in cui venne deciso, a loro insaputa, di deviare l’acqua di un ruscello
- che da sempre aveva irrigato i pochi campi che possedevano, l’unica magra
ricchezza del villaggio – per avviarla verso le terre che non appartenevano ai
Fontamaresi, ma ad un ricco proprietario del paese, Don Carlo Magna.
Lo stile narrativo di Silone,
fatto di un linguaggio semplice, immediato, per certi versi poco letterario, ma
di disincantata umanità, rimanda a quella cultura contadina e popolaresca- da
cui lo stesso autore proveniva – a favore della quale si era eletto da sempre
indiscusso paladino. Egli sosteneva che
la cultura e l’istruzione fossero fondamentali per il riscatto morale e sociale
di un popolo. Senza cultura le battaglie sociali erano perse in partenza. Nelle
intenzioni dello scrittore, il romanzo doveva rappresentare una denuncia
sociale, un manifesto attraverso cui far conoscere le condizioni di estrema
indigenza in cui vivevano i contadini del Meridione, da sempre oppressi da
ingiustizie e malversazioni. Ma era anche l’occasione per dimostrare che anche
i contadini avevano una loro dignità da difendere, che non potevano sempre
essere carne da macello. Attraverso la lotta e l’impegno per la difesa di un
diritto e per la salvaguardia delle loro terre, unica fonte di sostentamento, i
cafoni di Silone diventano finalmente artefici del proprio destino e, per la
prima volta, tentano con fatica di contrastare un potere e un destino a loro
sempre avversi.
Amo profondamente Silone. E' nato qui, a pochi chilometri da dove sono nata anche io. Abruzzese. Marsicano, come me.
RispondiEliminaVado a salutarlo, di tanto in tanto. Le sue ceneri sono ai piedi di una splendida torre medievale. A Pescina, il suo paese, per l'appunto.
Grande intellettuale: servirebbe uno come lui ai nostri giorni. Non solo come uomo di cultura, ma anche come uomo delle istituzioni. Non dimentichiamo che è stato un parlamentare della nostra Repubblica. E pensare che oggi la letteratura celebra i vari Fabio Volo e il Parlamento è nelle mani di certi loschi figuri...
EliminaL'ho letto tre volte.
RispondiEliminaE' un classico della nostra letteratura. Un grande libro
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