Ci sono certi personaggi
letterari - nati dalla penna di alcuni grandi scrittori - che godono della mia appassionata
simpatia e meritano tutto il mio affetto: sono gli “ultimi”, quelli che chiamano inetti e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta normale. Devo pertanto
ammettere che non amo in modo particolare le persone che vincono sempre, che
hanno successo e che conducono una esistenza brillante e soddisfacente. Costoro
mi annoiano, non li sopporto, non hanno nulla da insegnarmi. Preferisco
piuttosto gli incerti, quelli che hanno sbagliato strada, che sono sempre alla
ricerca di qualcosa, ma non sanno mai quale. Perché forse cercano se stessi
attraverso gli altri e questo loro cammino esistenziale spesso diventa anche il
mio.
Insomma, ad un arrampicatore
sociale come Geoges Duroy, il protagonista del romanzo “Bel-ami” di Maupassant preferisco,
per esempio, uno sconfitto dalla vita come Alfonso Nitti, il personaggio descritto
da Italo Svevo nel suo libro “Una vita”. Oppure uno come Jakob von Gunten - dell’omonimo romanzo di Robert Walser che ho appena finito di leggere - il quale voleva addirittura
essere uno zero assoluto “un magnifico zero rotondo come una palla”.
E per
raggiungere questo estremo e poco qualificante obiettivo, il nostro eroe
frequenta uno strano ed insolito istituto (il Benjamenta), dove i professori
non gli danno mai compiti; l’unico insegnamento che gli viene impartito
consiste sostanzialmente nell’inculcare nel suo animo due essenziali qualità:
pazienza e ubbidienza. E’ un istituto che invece di formare la personalità dei suoi
allievi con lo studio, cerca di demolirla attraverso la negazione del pensiero,
la disciplina e le rinunce. “A che servono a un uomo i pensieri e le idee –
dice Jacob – se ha la sensazione di non saper cosa farsene?”. E allora è meglio
non pensare, perché “chi pensa s’impenna”. La fedeltà, lo zelo, l’altruismo
discreto e servizievole sono le sue principali virtù. Non sa figurarsi niente
di più bello dell’ubbidienza, della disciplina e dell’attenzione verso gli
altri.
Per capire la psicologia di
Jakob von Gunten non si può prescindere dalla vita del suo autore, questo candido
e raffinato scrittore svizzero (era il preferito di Musil e Kafka) che visse
quasi sempre tra Zurigo e Berlino e proprio in quest’ultima città frequentò una
scuola per domestici che gli suggerì l’arte ossequiosa del servire, che
traspare con forza prorompente nelle sue storie. Si può senz’altro affermare
che tutti i suoi libri sono autobiografici: è sempre lui - il mite e riservato
scrittore Robert Walser - che si cela dietro i suoi personaggi i quali fanno
dell’assenza la propria ragione di vita, in antitesi all’atteggiamento
presenzialista della società in cui noi oggi viviamo, dove l’apparire è più
importante dell’essere, dove la visibilità ha più valore della discrezione.
Il talento letterario di
Walser fu riconosciuto solo dopo la sua morte, che avvenne il giorno di Natale
del 1956: si accasciò sulla neve, durante la sua solita passeggiata che soleva
fare tutti i giorni da quando – all’età di 50 anni – era stato trasferito (o
forse aveva volontariamente deciso di rinchiudersi) in una clinica psichiatrica.
Egli stesso aveva previsto e descritto la sua morte, ventotto anni prima, in un
suo celebre libro “I fratelli Tanner” quando racconta che il protagonista del romanzo,
Sebastian, “doveva
essersi accasciato lì per una grande stanchezza che non riusciva più a
sopportare (…) e si aveva la sensazione che non fosse in grado di affrontare la
vita e le sue fredde esigenze”.
Se fosse vissuto ai giorni nostri avremmo
potuto dire che Walser non amava la ribalta mediatica. “Chiunque abbia da far
mostra dei suoi successi e riconoscimenti – dice Jakob – lo si vede quasi
ingrassare, nutrirsi di compiacimento, gonfiarsi per la forza della vanità fino
a diventare un pallone irriconoscibile. Dio preservi la brava gente dagli
applausi della massa. Anche se non diventano cattivi, perdono la testa e s’infiacchiscono”.
Parole emblematiche che dipingono bene la vanità di certi personaggi che
cavalcano la cronaca dei nostri tempi. E poi, dobbiamo riconoscergli
quel particolare intuito con cui aveva saputo anticipare alcune caratteristiche
della nostra società consumistica, quando affermava che “ci impadroniamo prima
di una cosa, poi di un’altra, e una volta che ce ne siamo impadroniti, quasi
quasi è essa che ci possiede. Non siamo noi a possederla, ma, al contrario,
quello che credevamo essere una nostra conquista, finisce poi col dominarci”.
Non siamo forse posseduti dalle nostre meravigliose macchine? Non siamo forse
diventati schiavi delle nostre sofisticate conquiste tecnologiche?
Con una prosa tenera, ironica,
a volte malinconica, Jakob Von Gunten/Walser ci insegna che per rimanere puri
bisogna scendere dal piedistallo del successo mondano e della gloria e non
vantarsi del proprio albero genealogico e del proprio potere. Ci ricorda che si
può essere perfettamente tranquilli e sereni pur non essendo scalatori sociali
ma semplici individui sperduti e dimenticati nell’immensità della vita: basta saper
aspettare e nello stesso tempo saper tendere “l’orecchio verso la vita, verso
quella pianura che si chiama mondo, verso il mare con le sue tempeste”.
Grazie Remigio per avermi fatto scoprire questo autore che non conoscevo e con cui penso di entrare in confidenza.
RispondiEliminaCosì come io ringrazio te, per i tanti suggerimenti che mi offri quando leggo il tuo blog. A risentirci, Giorgio, e tante belle cose.
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