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Credo sia una riflessione molto interessante, che riporto di seguito:
“ L’altro giorno sull’autobus c’era una
donna che, munita di una tavoletta elettronica di ultima generazione, scriveva
i propri appuntamenti di vita e di lavoro. Il magico apparire dell’apparecchio
del desiderio calamitava l’attenzione di molti dei presenti, che si mettevano
tranquillamente a leggere gli appunti della signora. Anche io non sono riuscito
a fare a meno di sbirciare, scoprendo così che la signora aveva per le ore 10
un appuntamento dal dentista e alle 17 avrebbe atteso l’idraulico a casa. Allora
io mi sono chiesto se, qualora al posto dell’aggeggio elettronico da 10 pollici
la signora avesse tirato fuori taccuino e penna, l’effetto sarebbe stato lo
stesso. La domanda è retorica. Con una penna ed un’agenda la privatezza della
signora sarebbe stata tutelata, questo è certo, ma essa non avrebbe potuto
condividere col mondo le proprie esperienze, cosa che faceva con parecchia
disinvoltura, ben avvedendosi della presenza di estranei che sbirciavano i suoi
affari.
Nel lontano 1973 Guido Morselli, anticipando con grande lucidità i mali (e
la stupidità) del nostro tempo, scriveva: “non
mi convince la tesi che ogni esprimere, anche il più privato, supponga un
comunicare”. A distanza di quaranta anni, possiamo affermare con certezza
che quelle parole hanno assunto una portata profetica.
Il raccontare agli estranei le proprie faccende private, infatti, sembra
essere oggi la forma più diffusa di comunicazione, se non quella esclusiva,
almeno per molte persone. La massiccia diffusione dei telefoni portatili e dei
c.d. “social network” ha ampliato la possibilità per tutti di comunicare,
consentendo a chiunque, persino in strada o sull’autobus, di esprimere pensieri
e raccontare vicende, che spesso non meriterebbero di essere condivisi, perché
futili, discutibili, offensivi, banali. Il mezzo, certamente fenomenale, è
stato così utilizzato male. L’ampliamento delle possibilità comunicative ha
determinato una perdita di qualità del contenuto della comunicazione. Ho
sentito persone parlare ad alta voce al telefonino dell’ultima di campionato di
calcio, oppure litigare, o discutere animatamente, senza fare nulla per
abbassare la voce o per non dare nell’occhio. Ci sono taluni che desiderano che
gli altri ascoltino la loro conversazione, per far sapere quanti soldi hanno,
quale lavoro svolgono, quale squadra tifano, dove andranno in vacanza. Un tempo
le cabine telefoniche erano munite di porte e pareti, che salvaguardavano la
segretezza della comunicazione e la voglia di non ascoltare dei passanti. Oggi
queste barriere sono scomparse: la condivisione, persino di vicende che
dovrebbero essere confinate in ambiti di gelosa riservatezza, è divenuta la
regola becera della modernità. Tutto deve essere lasciato in pasto alla rete,
perché ognuno crede di essere innovativo, di avere pensieri o parole originali
da diffondere. Senza pensare che, in molti casi, sarebbe meglio sussurrare, per
un’istintiva forma di difesa”.
Condivido tutto. In senso letterale, s'intende.
RispondiEliminaHo un blog, come te, e provo a comunicare qualcosa. Non condivido online molto altro semplicemente perché non ritengo che TUTTA la mia esistenza sia degna di attenzione. Soprattutto di attenzione da parte di estranei.
Leggevo, qualche anno fa ormai, considerazioni molto simili a quelle del tuo/vostro post sul settimanale "Internazionale". Un articolo che mi rimase impresso proprio per la lucidità con la quale affrontava il problema dei social network e, soprattutto, l'approccio insano e morboso con cui in troppi si fiondano in questi universi paralleli. L'estremo si raggiunge proprio quando, a causa di una malata voglia di dire tutto a tutti, non ci si rende conto che molti atti e molti fatti privati hanno senso proprio perché privati. Una volta tramutati in pubblici, si trasformano in atti e fatti ridicoli. Lo scarto è tutto qui, ma per molti sembra arduo comprenderlo.
Scusa: stavolta mi sono dilungata più del solito.
Non ti sei affatto dilungata: hai semplicemente ed efficacemente esplicitato un argomento che riguarda tutti noi che, attraverso un blog, tentiamo di comunicare qualcosa agli altri. E sono pienamente d'accordo con te quando affermi che " i fatti privati hanno senso proprio perché privati" e non possono diventare di pubblico dominio. Purtroppo oggi accade che molte persone, pur di avere un po' di notorietà televisiva, si raccontano pubblicamente, svelando anche i fatti personali più intimi, alimentando così spettacoli voyeuristici per la morbosa soddisfazione di un pubblico sempre più esigente.
EliminaGrazie per il tuo intervento.
Ciao Remigio.
EliminaLa nostra è la società dell'apparenza e non dell'appartenenza.
Si spaccia il diverso come novità perché il nuovo ha sempre la caratteristica della discontinuità, mentre il diverso cambia solo l'aspetto di un fenomeno.
E' vero: la nostra è la società dell'apparenza e dell'immagine. Tutti vogliono apparire, per illudersi di esistere. Grazie per la visita, Gus
Eliminai peggiori sono quelli che lasciano acceso il telefono in situazioni in cui potrebbero - e soprattutto dovrebbero-farne a meno -mi è capitato a capodanno, stavamo facendo un giro nel bosco di notte con un gruppo-
RispondiEliminaE quando esso suona, disturbando tutti, fingono di scocciarsi con frasi del tipo: chi è che rompe i maroni?
(bhè in verità sei tu che li rompi a noi)
E' vero quello che dici. Ciao Silvia :-)
EliminaE' quasi ossimorico biasimare la condivisione su un blog pubblico? Eppure anche no, dato che si disquisisce del "modo e modo": di comunicare, fare blogging o mettere in piazza il privato più recondito. Anch'io a volte uso il blog come un rimbalzatore di privatissime amenità, ma a volte pubblico poesie, che per certi "versi" è come collegare casse acustiche all'anima, senza saperne regolare il volume.. ;)
RispondiEliminaCondivido il tuo pensiero. Comunque io credo che per poter mettere in piazza i propri fatti personali occorra avere una grande abilità di scrittura, affinché chi legge, anziché annoiarsi, possa addirittura immedesimarsi in quelle parole, farle proprie. E’ un’attitudine, questa, che non appartiene a tutti; e allora sarebbe meglio non rischiare.
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