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lunedì 3 novembre 2014

Il mare non bagna Napoli



Anna Maria Ortese nacque a Roma nel 1914, però Napoli può ben considerarsi la sua vera città, dove visse per molti anni e da cui trasse la sua maggiore ispirazione letteraria. Una città dove tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione...”. Così scriveva nel 1950, in un suo libro di racconti intitolato “L’infanta sepolta”.

Il Mare non bagna Napoli – che si aggiudicò il premio speciale per la narrativa nell’edizione del Viareggio 1953 – è una raccolta di 5 brevi racconti che hanno come tema narrativo le difficili condizioni socio-economiche della Napoli dell’immediato dopoguerra. Un mondo, quello napoletano degli anni ‘50, che “è meglio non vederlo che vederlo”, come sostiene una povera madre rivolta alla figlia cieca, nel primo racconto che si intitola “Un paio di occhiali”.

E ciò che era meglio non vedere, lo racconta – anzi lo denuncia - questa scrittrice poco ascoltata, invisa all’élite culturale del suo tempo,  la quale, girando per le vecchie e poverissime vie di Napoli ebbe modo di soffermarsi su quella realtà estremamente indigente e diseredata. Nessuna parola può valere la sua dura, spietata, lucida, toccante narrazione, di cui riporto un piccolo e significativo assaggio tratto dal terzo racconto, “Oro a Forcella”:

“…Come già a Forcella, non avevo visto ancora tante anime insieme, camminare o stare ferme, scontrarsi e sfuggirsi, salutarsi dalle finestre e chiamarsi dalle botteghe, insinuare il prezzo di una merce o gridare una preghiera, con la stessa voce dolce, spezzata, cantante, ma più sul filo del lamento che della decantata allegria napoletana. Veramente era cosa che meravigliava, e oscurava tutti i vostri pensieri. Sgomentava soprattutto il numero dei bambini, forza scaturita dall’inconscio, niente affatto controllata e benedetta, a chi osservasse l’alone nero che circondava le loro teste. Ogni tanto ne usciva qualcuno da un buco a livello del marciapiede, muoveva qualche passetto fuori, come un topo, e subito rientrava. (…) Alla base del vicolo, come un tappeto persiano ridotto ora tutto grumi e filamenti, giacevano frammenti delle immondizie più varie, e anche in mezzo a queste sorgevano pallide e gonfie, oppure bizzarramente sottili, con le grosse teste rapate e gli occhi dolci, altre figurette di bambini. Pochi quelli vestiti, i più con una maglietta che scopriva il ventre, quasi tutti scalzi e con dei sandaletti di altra epoca, tenuti insieme a furia di spago. (…) Cercare le madri, appariva follia. Di tanto in tanto ne usciva qualcuna da dietro la ruota di un carro, gridando orribilmente afferrava per il polso il bambino, lo trascinava in una tana da cui poi fuggivano urli e pianti, e si vedeva un pettine brandito in aria, o una bacinella di ferro appoggiata su una sedia, dove lo sfortunato era costretto a piegare la sua dolorosa faccia. Faceva contrasto a questa selvaggia durezza dei vicoli, la soavità dei volti raffiguranti Madonne e Bambini, Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei Librai, chini su una culla dorata e infiorata e velata di merletti finissimi, di cui non esisteva nella realtà la minima traccia. Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia; infine, una razza svuotata di ogni logica e raziocinio, s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuna lo avesse visto, e lo ricordava…”

E’ una scrittrice ormai dimenticata, che meriterebbe maggiore attenzione, soprattutto per la sua grande libertà di pensiero. Le sue idee non sempre erano in linea con il mondo intellettuale dell’Italia dell’epoca, che lei criticò aspramente infischiandosene delle reazioni negative. Subì, in vita, un forte ostruzionismo e finì per essere osteggiata ed emarginata un po’ da tutti; morì a Rapallo nel 1998, in solitudine e povertà, con il vitalizio della legge Bacchelli che, come sappiamo, aiuta economicamente ancora oggi gli artisti in difficoltà.

6 commenti:

  1. La Ortese è una delle mie più gravi falle.
    Devo rimediare. Anche perché molti suoi libri si trovano gratuitamente online.
    Non ho scuse.

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  2. Neanch'io la conoscevo: questo libro di racconti è il primo che ho letto di questa interessante scrittrice, la cui prosa è caratterizzata da uno stile limpido ed elegante. Ciao

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  3. complimenti vivissimi, sei un eccellente recensore

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  4. Tads, ti prego, non esagerare. Lo so che sei troppo buono :-). Comunque grazie

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  5. non ho letto niente di lei, forse questa è l'occasione buona.
    ml

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  6. Sono arrivato a lei leggendo una bella recensione su un blog di libri: non me ne sono pentito. A volte i blog servono a qualcosa. :-). Ciao ml

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