Anna Maria Ortese nacque a Roma
nel 1914, però Napoli può ben considerarsi la sua vera città, dove visse per
molti anni e da cui trasse la sua maggiore ispirazione letteraria. Una città
dove “tutte le
cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il
dolore più lacerato, erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra
loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva una impressione
stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane,
non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero
ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione...”. Così scriveva nel 1950, in un suo libro di racconti
intitolato “L’infanta sepolta”.
Il Mare
non bagna Napoli – che si aggiudicò il premio speciale per la narrativa
nell’edizione del Viareggio 1953 – è una raccolta di 5 brevi racconti che hanno
come tema narrativo le difficili condizioni socio-economiche della Napoli
dell’immediato dopoguerra. Un mondo, quello napoletano degli anni ‘50, che “è meglio non vederlo che vederlo”, come
sostiene una povera madre rivolta alla figlia cieca, nel primo racconto che si
intitola “Un paio di occhiali”.
E ciò
che era meglio non vedere, lo racconta – anzi lo denuncia - questa scrittrice
poco ascoltata, invisa all’élite culturale del suo tempo, la quale, girando per le vecchie e
poverissime vie di Napoli ebbe modo di soffermarsi su quella realtà
estremamente indigente e diseredata. Nessuna parola può valere la sua dura,
spietata, lucida, toccante narrazione, di cui riporto un piccolo e
significativo assaggio tratto dal terzo racconto, “Oro a Forcella”:
“…Come già a Forcella, non avevo visto ancora
tante anime insieme, camminare o stare ferme, scontrarsi e sfuggirsi, salutarsi
dalle finestre e chiamarsi dalle botteghe, insinuare il prezzo di una merce o
gridare una preghiera, con la stessa voce dolce, spezzata, cantante, ma più sul
filo del lamento che della decantata allegria napoletana. Veramente era cosa
che meravigliava, e oscurava tutti i vostri pensieri. Sgomentava soprattutto il
numero dei bambini, forza scaturita dall’inconscio, niente affatto controllata
e benedetta, a chi osservasse l’alone nero che circondava le loro teste. Ogni
tanto ne usciva qualcuno da un buco a livello del marciapiede, muoveva qualche
passetto fuori, come un topo, e subito rientrava. (…) Alla base del vicolo,
come un tappeto persiano ridotto ora tutto grumi e filamenti, giacevano
frammenti delle immondizie più varie, e anche in mezzo a queste sorgevano
pallide e gonfie, oppure bizzarramente sottili, con le grosse teste rapate e
gli occhi dolci, altre figurette di bambini. Pochi quelli vestiti, i più con
una maglietta che scopriva il ventre, quasi tutti scalzi e con dei sandaletti
di altra epoca, tenuti insieme a furia di spago. (…) Cercare le madri, appariva
follia. Di tanto in tanto ne usciva qualcuna da dietro la ruota di un carro,
gridando orribilmente afferrava per il polso il bambino, lo trascinava in una
tana da cui poi fuggivano urli e pianti, e si vedeva un pettine brandito in
aria, o una bacinella di ferro appoggiata su una sedia, dove lo sfortunato era
costretto a piegare la sua dolorosa faccia. Faceva contrasto a questa selvaggia
durezza dei vicoli, la soavità dei volti raffiguranti Madonne e Bambini,
Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei
Librai, chini su una culla dorata e infiorata e velata di merletti finissimi,
di cui non esisteva nella realtà la minima traccia. Non occorreva molto per
capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione
erano decaduti in vizio e follia; infine, una razza svuotata di ogni logica e
raziocinio, s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo
era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente
allegrezza. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e
rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati
minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo
di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più
esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre
gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli
ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuna lo
avesse visto, e lo ricordava…”
E’ una
scrittrice ormai dimenticata, che meriterebbe maggiore attenzione, soprattutto
per la sua grande libertà di pensiero. Le sue idee non sempre erano in linea
con il mondo intellettuale dell’Italia dell’epoca, che lei criticò aspramente
infischiandosene delle reazioni negative. Subì, in vita, un forte ostruzionismo
e finì per essere osteggiata ed emarginata un po’ da tutti; morì a Rapallo nel
1998, in solitudine e povertà, con il vitalizio della legge Bacchelli che, come
sappiamo, aiuta economicamente ancora oggi gli artisti in difficoltà.
La Ortese è una delle mie più gravi falle.
RispondiEliminaDevo rimediare. Anche perché molti suoi libri si trovano gratuitamente online.
Non ho scuse.
Neanch'io la conoscevo: questo libro di racconti è il primo che ho letto di questa interessante scrittrice, la cui prosa è caratterizzata da uno stile limpido ed elegante. Ciao
RispondiEliminacomplimenti vivissimi, sei un eccellente recensore
RispondiEliminaTads, ti prego, non esagerare. Lo so che sei troppo buono :-). Comunque grazie
RispondiEliminanon ho letto niente di lei, forse questa è l'occasione buona.
RispondiEliminaml
Sono arrivato a lei leggendo una bella recensione su un blog di libri: non me ne sono pentito. A volte i blog servono a qualcosa. :-). Ciao ml
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