martedì 29 luglio 2014

L'isola di Arturo e del Postino



Da un po’ di anni a questa parte, all’inizio dell’estate, amo trascorrere qualche giorno su un’isola, mi piace immergermi in quelle magiche atmosfere che solo una terra circondata dal mare sa offrire. E’ un’esigenza che nasce, probabilmente, allorquando la confusione e lo stress della grande città rendono la vita quotidiana sempre più difficile e fastidiosa e, allora, si affaccia l’intimo desiderio di rifugiarmi su quella immaginaria “isola deserta”, per stemperare le amarezze, le difficoltà, le delusioni, la stanchezza. E’ proprio in quei momenti che affiora questo dolce pensiero, quest’ancora di salvezza: l’isola come conforto dell’anima. Per chi ama il silenzio e la contemplazione, l’isola è sinonimo di pace, di distacco dalle miserie umane e dalle tribolazioni della vita di tutti i giorni. Per chi, invece, mal sopporta un’esistenza poco movimentata, l’isola evoca soltanto solitudine, emarginazione, reclusione, ma è un sentimento - quest’ultimo - che non mi appartiene. A prima vista la nostra isola – qualsiasi isola - appare irraggiungibile e  minacciosa: sembra quasi che, con quella immensa distesa d’acqua da cui è circondata, voglia respingere qualsiasi viandante, intenda erigere un baluardo alla sua inviolabilità. Poi, una volta messo piede a terra, questi pensieri negativi svaniscono immediatamente per prendere il posto di sensazioni più piacevoli dovute alla calda accoglienza che il luogo sa donare.
Facevo queste riflessioni mentre scendevo dall’aliscafo che, dal porto di Casamicciola, mi aveva riportato sull’isola di Procida. E, uscendo dalla grande pancia della nave ho provato ad immaginare – estraniandomi con difficoltà dal contesto vacanziero in cui ero immerso e dalla variegata e accaldata umanità che mi stava intorno  – di essere approdato su un’isola sconosciuta e selvaggia alla stregua di quegli antichi navigatori del passato che, dopo mesi e mesi di navigazione in alto mare, sbarcavano su terre lontane e disabitate. Era come uscire dal grembo materno e trovarsi in un mondo ostile e sconosciuto.  Chissà quali sensazioni e quali straordinarie emozioni provavano quei pionieri del mare al cospetto di una terra mai vista prima. A noi, moderni viaggiatori, non è più concesso vivere quelle esperienze perché tutto ciò che c’era da scoprire è stato scoperto e non esistono terre sconosciute su cui issare la nostra bandiera. Eppure, quando sbarchiamo su un’isola, le sorprese non mancano mai, basta cercarle: in una piazzetta a picco sul mare oppure percorrendo un vicoletto che si snoda tra le casette dei pescatori o visitando un’antica chiesa. Con un po’ di fantasia possiamo sentirci tutti dei novelli esploratori in cerca della terra promessa.
Arrivando sull’isola di Procida, ci accoglie un simbolo cristiano: la statua del Cristo Pescatore, dovuto alla fede dei pescatori del luogo, e poi quel tipico paesaggio marinaro costituito da barche da pesca, barconi mercantili (ma anche qualche imbarcazione più lussuosa) e tante casette colorate addossate le une sulle altre, come un presepe. Mi è sembrato che nel porto non ci fossero molte imbarcazioni eleganti, quegli yacht da nababbi che popolano sempre in gran numero gli altri porti dell’arcipelago partenopeo; abbondano invece le piccole barche degli isolani a conferma del fatto che il turismo d’elite preferisce altri lidi.  Percorrendola in lungo e in largo, salta subito agli occhi che Procida vive nel ricordo di un film che fu qui girato nel 1994: “il Postino”, con l’indimenticabile interpretazione di Massimo Troisi; la sua immagine triste e malinconica è presente un po’ ovunque, nelle piazze come nei locali pubblici, e forse nessun personaggio meglio dell’attore napoletano poteva rappresentare la vera essenza dell’isola, che è nel contempo appartata, generosa e malinconica. Ma anche un’altra figura è scolpita nella memoria storica di Procida: è Arturo, l’eroe-ragazzo nato dalla penna di Elsa Morante, protagonista del romanzo “L’isola di Arturo”, che vive la sua avventura adolescenziale in questo luogo a cavallo degli anni ’50. Così la descrive:  “ la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste tra grandi scogliere. (…) Attorno al porto, le vie sono tutti vicoli senza sole, fra le case rustiche e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia, rosa e cinereo. Sui davanzali delle finestruole, strette quasi come feritoie, si vede qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta; oppure una gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora catturata (…) Mai, neppure nella buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che, da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le strade, e canti, e suoni di chitarre e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra”. Ma, mentre la figura del postino-Troisi con la sua immancabile bicicletta si incrocia dappertutto, è più raro incontrare riferimenti letterari tratti dal libro della Morante, a conferma del fatto che nella nostra epoca “le immagini”, da qualunque fonte esse provengano (cinema, televisione o pubblicità) hanno il sopravvento sulla “parola”. Procida suscita un fascino antico: appare riservata e rustica e non ha nulla a che vedere con l’eleganza e la ricercatezza di Capri né con la grandezza e la ricchezza di Ischia. E’ sostanzialmente un’isola di pescatori e contadini e porta nel suo grembo tutta la discrezione e la saggezza della sua gente. I Procidani, diceva Arturo “sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia da noi non piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza”.  
Prima di lasciare l’isola, mi sono incamminato sulla sua sommità, a circa cento metri sul livello del mare, su quella che i Procidani chiamano “terra murata”;  qui si staglia la massiccia mole del vecchio carcere ormai abbandonato. Osservandolo, circondato com’ero da quel meraviglioso paesaggio che si poteva ammirare da lassù, ho pensato che solo degli uomini cinici e malvagi potevano rinchiudere altri uomini in un posto così bello: una crudele destinazione per i detenuti partorita dalla spietata cattiveria dei loro carcerieri. Da quell’altezza, guardando da una delle terrazze che si aprono a strapiombo sul mare, lo spettacolo è davvero esaltante: in lontananza, tra un cielo e un mare senza fine, di un azzurro intenso, appare la silhouette di Capri e poi, osservando in basso, il coloratissimo porticciolo di pescatori “la Corricella” con le sue case multicolori addossate alla collina. Mi sono fermato lì ad osservare rapito quel panorama, opera stupenda di un Dio.

10 commenti:

  1. A me è piaciuta tanto proprio per quella sua aria un po' sottotono così autentica e vera. E per il mare spettacolare intorno. Mamma mia, che voglia di vacanze!

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    1. E' un'isola che si addice alle persone sensibili e meditative....buona vacanza

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  2. Anche a me piacciono le isole. E' bello questo tuo rito di iniziare l'estae passano qualche giorno su un'isola. Da copiare ;-)

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    1. Grazie. Ti consiglio di sperimentare questo rito estivo. Non te ne pentirai. Ciao

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  3. procida ha quei requisiti di tranquillità e bellezza pudica per essere l'"isola-rifugio" che descrivi tu.
    ciao
    massimolegnani

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    1. Hai trovato la parola giusta "isola-rifugio". Grazie Massimo

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  4. film indimenticabile, d'atmosfera.

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