giovedì 12 giugno 2014

Il poeta degli umili



Pablo Neruda (1904-1973) è stato uno dei più grandi poeti del Novecento, un poeta che ha saputo dare voce al popolo cileno, sviluppando una intensa comunicazione tra la sua anima e la sua terra, una delle più solitarie del mondo, una terra dalle infinite spiagge e dai monti selvaggi. Con questo suo libro di memorie “Confesso che ho vissuto” - scritto qualche anno prima di morire – il poeta cileno ripercorre la sua vita, i suoi ricordi tra la sua gente, rivive i momenti più significativi della sua esperienza politica e sociale, racconta del suo modo di essere poeta e scrittore.

Forte è stato il suo amore per il Cile e a tal proposito scriveva: “Penso che l’uomo debba vivere nella sua patria e credo che lo sradicamento degli esseri umani sia una frustrazione che in un modo o nell’altro offusca la chiarezza dell’anima. Io non posso vivere che nella mia terra; non posso vivere senza mettere in essa piedi, mani, orecchie, senza sentire la circolazione delle sue acque e delle sue ombre, senza sentire come le mie radici cercano nelle sue zolle le sostanze materne”.

Un poeta che amava la sua gente, quella gente che lavorava duramente nelle grandi miniere di rame, “senza scuole e senza scarpe”, che lo elesse senatore della repubblica il 4 marzo 1945 nelle liste del partito Comunista e che ascoltava in religioso silenzio le sue poesie, anche se non tutti erano in grado di capirle. Ma questo non era importante. Era importante invece che un poeta si degnasse di stare in mezzo a loro, di scrivere per loro, di vivere la sofferenza attraverso la poesia. “La mia poesia ha accettato la passione, ha sviluppato il mistero, si è aperta il passo fra i cuori del popolo. Tutte le alternative, dal pianto ai baci, dalla solitudine al popolo, sono presenti e vivono nella mia poesia, e in essa agiscono, perché ho vissuto per la mia poesia e la mia poesia ha sostenuto le mie lotte”, così scriveva.

Neruda sosteneva che scrivere un’opera, sia essa una poesia o un racconto, scaturiva da una precisa richiesta, propria della collettività. Affermava che quasi tutte le grandi opere dell’antichità furono fatte sulla base di precise istanze e in queste occasioni mai si è perduta la libertà, l’artista ha sempre conservato la sua indipendenza, la sua autonomia, la sua capacità di essere sempre se stesso. Mentre asseriva che nei momenti di maggiore trance creativo, il prodotto può essere parzialmente altrui, influenzato da letture e pressioni esterne.

La poesia di Neruda quindi non nasce da una ispirazione, da un momento di interiorità ma è il risultato di un’investitura che gli viene data dalla strada e dalle masse. Dalla sua gente. Era un poeta civile, ma anche un autore che sapeva essere passionale: “io continuo a lavorare con i materiali che ho e che sono; sono onnivoro di sentimenti, di esseri, di libri, di avvenimenti e di battaglie. Mi mangerei tutta la terra, mi berrei tutto il mare”. Era un poeta che viaggiava tanto, sia all’interno del suo paese che all’estero perché amava portare la sua poesia nelle piazze, nelle strade, nelle fabbriche, nelle aule scolastiche, nei teatri ovunque ci fosse gente capace di ascoltarlo: “ho percorso praticamente tutti gli angoli del Cile, disseminando la mia poesia fra la gente del mio popolo”. Eppure, nonostante questo continuo peregrinare diceva che gli piaceva viaggiare senza muoversi di casa, senza uscire dal suo paese, senza allontanarsi da se stesso: “mi piacerebbe starmene sempre davanti al fuoco, vicino al mare, fra due cani, a leggere i libri che ho raccolto a costo di tanta fatica, fumando la pipa”. Diceva che la poesia è sempre un atto di pace e che il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina.
 

(letto nel novembre 2009)

2 commenti:

  1. Quel film lo ricordo anch'io con piacere: manca un attore come Troisi nel cinema italiano.

    RispondiElimina