domenica 1 giugno 2014

Quando il dolore fa oscillare la fede



La morte improvvisa di una persona cara viene vissuta dai superstiti quasi sempre come un trauma, come una violenza, un evento difficile da accettare e da giustificare. Quando la sorte ti priva prematuramente della persona che più ami e il dolore ti schiaccia e diventa sempre più lacerante, ti viene da pensare che su questa terra regna una sorta di ingiustizia divina che colpisce senza motivo le persone più indifese; non hai più speranze e il mondo ti crolla addosso. E se poi sei sorretto dalla fede cristiana, ti spingi perfino a credere - fosse anche per un solo istante - ad una cosa orribile e blasfema per un cristiano: e cioè che Dio stesso non esiste. Di fronte ad una tragedia umana – consideriamo per esempio la morte di un figlio in tenera età o eventi catastrofici come una guerra, un terremoto ecc., che provocano centinaia di morti - ti chiedi perché mai quel Dio a cui ti rivolgi nella preghiera, che sembra così presente nella tua vita quando non lo cerchi, risulti invece totalmente assente nel momento del maggior bisogno e nella tribolazione.
Ti domandi, senza trovare risposte soddisfacenti, perché sia successo proprio a te. E ti chiedi: cosa ho fatto di male per meritare un simile castigo? perché a questo mondo vengono sempre puniti i buoni anziché i cattivi? perché Dio non è intervenuto con il suo potere miracoloso?
La morte - quella violenta e imprevista che non ti aspetti - suscita inevitabilmente interrogativi sul bene e sul male di questo mondo, provoca dubbi, genera incertezze e confusioni. Viene accolta come una ingiusta condanna.

Nel suo breve e intenso libro autobiografico “Diario di un dolore”  lo scrittore irlandese C. S. Lewis (1898-1963) si ritrova a vivere questi momenti di sofferenza e ci parla della sua violenta reazione emotiva a seguito della morte,  per un male inguaribile, della sua giovane moglie; ci racconta la sua inconsolabile tristezza e si interroga sull’esistenza di Dio. L’autore fa soprattutto una riflessione sul dolore, un dolore angosciato che viene vissuto dal protagonista come una grave ingiustizia, una vera e propria violenza fisica. Un dolore “che assomiglia tanto alla paura” perché provoca gli stessi sussulti dello stomaco, la stessa agitazione e quel continuo inghiottire che lo fa stare continuamente male.

“Se la bontà di Dio” scrive l’autore “è in contraddizione con le sofferenze che ci vengono inflitte, allora o Dio non è buono oppure non esiste: perché nell’unica vita che conosciamo Egli ci fa soffrire al di là delle nostre paure più terribili e di ogni nostra capacità immaginativa. E se non c’è contraddizione, allora anche dopo la morte Egli può infliggerci sofferenze non meno insopportabili di prima” Parole molto dure pronunciate da uno scrittore che si era sempre dichiarato cristiano. Ma un cristiano che non si aggrappa ciecamente alla fede ma cerca di andare oltre le emozioni e che – di fronte alla tragedia familiare vissuta come una vera ingiustizia - mette in discussione le sue certezze e non si lascia abbindolare da facili ed ipocrite consolazioni; un cristiano che sente vacillare la sua stessa fede religiosa e che scava all’interno di se stesso alla ricerca di una plausibile giustificazione.

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