La
morte improvvisa di una persona cara viene vissuta dai superstiti quasi sempre
come un trauma, come una violenza, un evento difficile da accettare e da
giustificare. Quando la sorte ti priva prematuramente della persona che più ami
e il dolore ti schiaccia e diventa sempre più lacerante, ti viene da pensare
che su questa terra regna una sorta di ingiustizia divina che colpisce senza
motivo le persone più indifese; non hai più speranze e il mondo ti crolla
addosso. E se poi sei sorretto dalla fede cristiana, ti spingi perfino a
credere - fosse anche per un solo istante - ad una cosa orribile e blasfema per
un cristiano: e cioè che Dio stesso non esiste. Di fronte ad una tragedia umana
– consideriamo per esempio la morte di un figlio in tenera età o eventi
catastrofici come una guerra, un terremoto ecc., che provocano centinaia di
morti - ti chiedi perché mai quel Dio a cui ti rivolgi nella preghiera, che
sembra così presente nella tua vita quando non lo cerchi, risulti invece
totalmente assente nel momento del maggior bisogno e nella tribolazione.
Ti
domandi, senza trovare risposte soddisfacenti, perché sia successo proprio a
te. E ti chiedi: cosa ho fatto di male per meritare un simile castigo? perché a
questo mondo vengono sempre puniti i buoni anziché i cattivi? perché Dio non è
intervenuto con il suo potere miracoloso?
La
morte - quella violenta e imprevista che non ti aspetti - suscita
inevitabilmente interrogativi sul bene e sul male di questo mondo, provoca dubbi,
genera incertezze e confusioni. Viene accolta come una ingiusta condanna.
Nel
suo breve e intenso libro autobiografico “Diario
di un dolore” lo scrittore irlandese
C. S. Lewis (1898-1963) si ritrova a vivere questi momenti di sofferenza e ci parla della
sua violenta reazione emotiva a seguito della morte, per un male inguaribile, della sua giovane
moglie; ci racconta la sua inconsolabile tristezza e si interroga
sull’esistenza di Dio. L’autore fa soprattutto una riflessione sul dolore, un
dolore angosciato che viene vissuto dal protagonista come una grave ingiustizia,
una vera e propria violenza fisica. Un dolore “che assomiglia tanto alla paura” perché provoca gli stessi
sussulti dello stomaco, la stessa agitazione e quel continuo inghiottire che lo
fa stare continuamente male.
“Se la bontà di Dio” scrive l’autore “è
in contraddizione con le sofferenze che ci vengono inflitte, allora o Dio non è
buono oppure non esiste: perché nell’unica vita che conosciamo Egli ci fa
soffrire al di là delle nostre paure più terribili e di ogni nostra capacità
immaginativa. E se non c’è contraddizione, allora anche dopo la morte Egli può
infliggerci sofferenze non meno insopportabili di prima” Parole molto dure
pronunciate da uno scrittore che si era sempre dichiarato cristiano. Ma un
cristiano che non si aggrappa ciecamente alla fede ma cerca di andare oltre le
emozioni e che – di fronte alla tragedia familiare vissuta come una vera
ingiustizia - mette in discussione le sue certezze e non si lascia abbindolare
da facili ed ipocrite consolazioni; un cristiano che sente vacillare la sua
stessa fede religiosa e che scava all’interno di se stesso alla ricerca di una plausibile
giustificazione.
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