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giovedì 20 marzo 2014

Il treno, metafora della separazione




“....Ero eccitato perché non ero mai stato alla stazione e volevo vedere i treni da vicino. Fino a quel momento i treni li avevo visti passare soltanto in lontananza, dalla finestra della cucina della casa di mia nonna in campagna. La nonna abitava in collina, a meno di duecento metri in linea d’aria dalla strada ferrata; così, quando andavamo da lei la domenica, io mi affacciavo alla finestra della cucina per guardare i treni che circolavano nella vallata. La nonna conosceva a memoria gli orari di passaggio e li aveva addirittura segnati su un piccolo foglietto appeso vicino al calendario, apposta per me. Ma a me quel foglio non serviva: avevo imparato anch’io a memoria gli orari di passaggio, perché dopotutto era quella la mia occupazione domenicale preferita. Dei treni avevo un’idea vaga, lontana, filtrata dal vetro della finestra. Erano per me come lunghi serpenti di metallo, freddi e lucidi; non riuscivo ad immaginare che potessero contenere delle persone.
Facevo mille domande a mio padre, in attesa che il treno arrivasse per portarlo via. Il suo viso era tirato e stanco, ma rispondeva lo stesso anche a quelle più sciocche, sempre. Scherzava, dandomi risposte bizzarre o sconclusionate. E io gli facevo domande a raffica solo per sentirlo parlare, per sentirlo vicino. Quando percepii distintamente la preoccupazione nella sua voce, però, decisi che non era il caso di fargliene più. Mi parve addirittura più vecchio, con le rughe che si spandevano sulla fronte e poi si raccoglievano in vertigini.
Bastò quella grigia giornata a far svanire la passione della mia infanzia. Il primo incontro ravvicinato coi treni fu traumatico e sufficiente a mutare la mia eccitazione in terrore. Fui assai stupito di scoprire che i treni, visti da vicino, mi spaventavano: arrivavano sferragliando e scuotendo la terra e il cielo, vomitando fumo e acqua, ingoiando le persone. Duri tubi di metallo, luccicanti, avvolgenti, rumorosi. Ne ebbi paura. In tutto ciò che piace c’è sempre un lato che ci intimorisce; esso resta nascosto, intangibile, finché le vicende e l’esperienza non lo fanno uscire fuori. Allora mutiamo il nostro atteggiamento: ciò che ci piaceva prima, diventa per noi fonte di angoscia. E quel giorno, nella mia mente, senza volerlo, associai il treno con la partenza di mio padre. Il treno me lo portava via, verso quel luogo più trascendente che reale che avevo sempre sentito chiamare “su in Svizzera”: non poteva perciò che essere cattivo, quasi demoniaco, il mostro delle fiabe...”

(tratto dal romanzo “Percezione dell’inverno”
di Alfonso Cernelli)

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