Cristina,
pur amando suo marito Stefano – da cui aveva avuto una figlia (Daniela) - non
aveva cessato mai d’amare anche Graziano,
fratello di Stefano, il suo primo amore. “Stefano era passato da cognato a marito e Graziano da fidanzato a
cognato”. I due fratelli erano molto diversi l’uno dall’altro, non si
somigliavano affatto: il primo era brillante, estroverso, sicuro di sé;
Graziano invece era debole, anche di carattere, un temperamento mite,
arrendevole “che in taluni momenti dava l’impressione d’essere addirittura spaurito”,
quasi succube del fratello, per il quale Cristina avvertiva una grande
tenerezza.
La
morte prematura di Stefano, avvenuta a seguito di un grave incidente d’auto,
sembrava quasi potesse agevolare il rapporto tra Cristina e Graziano, pareva
quasi che la tragedia familiare potesse ristabilire un antico equilibrio “dissolvendo per sempre i rancori, se mai
c’erano stati, e se non proprio i rancori, le amarezze, i contrasti e talvolta
i risentimenti”. Ma la morte non sempre risolve certe situazioni: al
contrario molto spesso le aggrava, le acuisce, apre una serie di conflitti
interiori, di rimorsi, di incomprensioni; ciò si manifesta soprattutto tra la
madre e la figlia, una ragazza dal carattere difficile, sfiorata dalla droga,
che si sentiva trascurata e poco amata. Questa l’estrema sintesi della trama
del romanzo.
L’autore,
con grande maestria, riesce a dare dignità e valenza letteraria ad una vicenda
tutt’altro che originale, direi quasi banale, grazie ad uno stile corposo ed
elegante che incanta e irretisce il lettore amante della bella scrittura. Un
vero scrittore, secondo me, è colui che sa rendere bello anche l’ordinario, il
racconto della quotidianità e Michele Prisco, con questo suo libro sui vizi e
le virtù di quella società borghese della provincia
addormentata, a cui apparteneva e che risulta quasi sempre presente nei
suoi libri, riesce nell’impresa di ridare armonia e bellezza alla pagina
scritta.
Lo
scrittore partenopeo (era nato a Torre Annunziata e morì in quella città che
più amava, Napoli) ci racconta, in chiave psicologica e a tratti con vera
suspense, una vicenda tormentata e sofferta - ambientata tra Roma e
Sant’Agnello, un paese in provincia di Napoli – ci dipinge un affresco umano ed
esistenziale che vede i protagonisti del suo romanzo dibattersi tra sentimenti
contrastanti, conflitti interiori e difficoltà a comunicare tra di loro.
Attraverso
l’indagine introspettiva dei suoi
personaggi, giocata su diversi piani temporali, tra il passato e il presente,
con una grande capacità di coinvolgimento emotivo, Prisco si interroga sui
grandi temi del vivere quotidiano che assillano l’uomo moderno, quali la solitudine,
l’incomprensione, i difficili rapporti tra genitori e figli, l’incomunicabilità
tra le persone, la vita e la morte.
analogie tra rea e prisco ve ne sono? se si quali?
RispondiEliminaIntanto grazie e ben arrivato nel mio blog. Michele Prisco e Domenico Rea sono certamente due dei più grandi scrittori partenopei. Mi chiedi se esistano analogie tra i due scrittori; per come li conosco io, direi che sono uniti da una peculiarità molto forte: la “napoletanità”. Le tematiche trattate nei rispettivi libri sono comunque fondamentalmente diverse, in considerazione delle loro diverse origini. Prisco, infatti, era nato in un ambiente altolocato e quasi tutta la sua narrativa è incentrata nella rappresentazione dei vizi e delle virtù di quella borghesia partenopea, a cui lui apparteneva. Ne descrive il presente e racconta la quotidianità con uno stile elegante e raffinato. Il percorso narrativo di Rea, invece, è rivolto verso la nuova realtà sociale emersa a seguito dell’ultimo conflitto bellico; racconta il disagio sociale, denuncia ingiustizie e prevaricazioni e lo fa attraverso una prosa diretta, istintiva, carnale. Di Domenico Rea ho letto “Ninfa Plebea”, che si aggiudicò il premio Strega nel 1993 e da cui è stato anche tratto un film diretto dalla Wertmuller; il libro tratta una dolorosa e difficile vicenda familiare ambientata durante la seconda guerra mondiale. Un caro saluto
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