venerdì 13 dicembre 2024

Io, il Natale e la "voluttuosa pigrizia del caminetto"

 


Un caminetto acceso, nelle serate invernali, ha sempre esercitato su di me un fascino straordinario. Una forte attrazione. E’ come ritornare alla mia infanzia, quando il focolare era il centro della vita domestica e offriva non solo calore ma anche serenità, rafforzando quello spirito familiare dello stare insieme. E’ come rivedere le persone care che non ci sono più. E’ riassaporare sensazioni e odori e sapori e ricordi preziosi che albergano, indelebili, nella mia memoria.

Il focolare acceso - prima ancora che una fonte di calore – è per me uno stato d’animo. Una filosofia di vita. E’ riscoprire le cose essenziali della vita. Simbolo di accoglienza e di tradizioni, è una sorgente di piacere che riscopro ogni qual volta mi ritrovo al paese nelle feste di fine anno. Mi piace stare accovacciato su una vecchia seggiola, godermi quella beatitudine nascosta tra le fiamme che scoppiettano e che sembrano gesticolare, parlandomi dell’anno che sta per finire e consigliandomi su quello che verrà. In un’epoca dominata dalla tecnologia sempre più invasiva, il focolare mi riporta alle origini e assurge quasi a simbolo di nume tutelare della casa. Una presenza sacrale che unisce e invoglia a raccontarsi. Ma anche una presenza silenziosa. Manca nella nostra società, nelle nostre case sempre più moderne e tecnologiche, un punto di riferimento così antico e familiare, oggi sostituito da strumenti digitali che annullano il silenzio, anche quando sono spenti, e illudono e allontanano le persone dalla realtà circostante. Andando con la mente alla mitologia greca, è come se Estia, la dea del focolare che vigilava sulla casa, venisse sostituita dal dio Prometeo, l’inventore della tecnica che aveva rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini.

Il Natale è alle porte ed io mi sono già rifugiato nella mia casetta nativa, nel Cilento. “Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade (mi vengono in mente i versi di una indimenticabile poesia di Ungaretti) lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata”. E aspettando che passi questa “tempesta” consumistica, fatta di luminarie e panettoni e regali e cenoni e confusione, me ne sto accanto al fuoco, a godermi le piccole gioie della vita, a dimenticare rimpianti e a stemperare  malinconie. “Qui non si sente altro che il caldo buono – faccio ancora miei i versi del poeta – sto con le quattro capriole di fumo del focolare”. Quanto sarebbe triste e fredda questa casetta se, dal suo tetto, non salisse il fumo del mio caminetto. Anche il paese sembrerebbe incompiuto, come un presepe senza pastori, se dai tetti delle case non svettassero i tanti fantasiosi comignoli che resistono al peso del tempo.

Accendere il fuoco è un rituale rilassante che mi concedo tutte le mattine, appena sveglio. Non potrei mai rinunciarvi. Uso come base di accensione dei fogli di giornale appallottolati, con dei legnetti molto secchi di facile combustione. Poi aggiungo, man mano che la fiamma aumenta, della legna più robusta proveniente dalla mia campagna: legna di quercia, di olmo o di ulivo, legna che sprigiona odori inconfondibili che sanno di terra e di natura. La mia abilità nell’officiare questa liturgia mattutina mi conforta. Mi dona serenità. Inondato dal riverbero della fiamma, osservo estasiato le faville che schizzano di qua e di là, simili a lucciole di antica memoria, che ridestano i miei ricordi infantili. Da bambino amavo sbucciare i mandarini e lanciare le scorze nel fuoco: mi piaceva tanto quel profumo che si sprigionava dai tizzoni ardenti e si diffondeva nell’aria, mentre aumentava all’improvviso la vampata. E quasi mi intimoriva quel suo “linguaggio” crepitante. “Quando il fuoco brontola – diceva la buon’anima di mia nonna - c’è qualcuno che ti pensa”. E chi mai poteva essere? Ecco allora che la mia fantasia cominciava a galoppare, per dare un nome a quella voce misteriosa che proveniva dal camino. Un gioco a cui non rinunciavo, invogliato dalla nonna.

Rinvigorire la fiamma stuzzicando i tizzoni e aggiungendo nuova legna, che ritiro da una catasta innalzata fuori dalla porta di casa, è per me un piacevole passatempo. E’ un’arte antica, quella di  accatastare la legna. Ha una sua bellezza, un suo fascino misterioso. E’ un po' come costruire un muretto a secco, vale la stessa tecnica: impilare i ceppi di misure diverse, uno sopra l’altro, al posto delle pietre. E l’opera è bell’e fatta! A volte è così perfetta che, nel prelevare i tronchetti da ardere, provo quasi un senso di dispiace doverla smantellare, quella catasta.

La felicità è stare accanto al focolare nelle fredde serate di fine anno: è come stare in piacevole compagnia di un amico fidato, che ti parla e non ti fa sentire mai solo. Mi vengono in mente le preziose parole che Giovanni Verga scriveva in una sua novella che si intitola “Nedda”, parole che riscaldano come quel focolare che raccontano e ti trasportano in un mondo che non c’è più:

“Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembrava in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascerei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri…”


lunedì 2 dicembre 2024

Il tempo delle cose è finito

 


Siamo quotidianamente investiti da una massa di informazioni che ha preso il posto delle cose, destabilizzando la nostra esistenza. Le informazioni hanno una validità molto limitata: si fondano sulla sorpresa. Siamo diventati consumatori insaziabili di informazioni, che rappresentano la realtà e riducono i contatti fisici. Ma sono le cose concrete i punti fermi che influenzano le nostre vite. Tuttavia, il mondo si fa sempre più inafferrabile – scrive lo scrittore e filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio “Le non cose” con sottotitolo “come abbiamo smesso di vivere il reale” – siamo passati dall’era delle cose all’era delle non-cose. Non abitiamo più la terrà e il cielo, ma Google, e all’ordine terreno è subentrato l’ordine digitale.

La realtà ci appare sempre più scivolosa e ingarbugliata, piena di stimoli che non vanno oltre la superficie. Comunichiamo incessantemente, raccogliamo dati e amici e follower senza mai incontrare l’Altro, che scompare in forma di voce e di sguardo. “Il mondo odierno è molto povero di sguardo e di voce”. Non vogliamo più legarci alle cose che un tempo ci erano care, ma evitiamo anche di legarci alle persone, cercando ossessivamente di conoscerne altre in maniera virtuale. “Ci sentiamo liberi – scrive il filosofo coreano – eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati”.

Ci stiamo dirigendo, sostiene ancora l’autore di questo libro, verso un’epoca post-umana, “in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni…La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum”.

E’ finito il tempo delle cose che stanno a cuore. E il tempo del cuore appartiene ormai al passato. Le cose nascono già morte. “Non vengono usate, bensì consumate. Solo un lungo utilizzo dà loro un’anima. Solo le cose del cuore sono animate. Flaubert voleva essere sepolto insieme al suo calamaio”.

Probabilmente l’uomo contemporaneo vorrà essere sepolto insieme al suo smartphone.