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giovedì 10 ottobre 2024

Quell'antico frantoio

 


Diceva Schopenhauer che noi crediamo, talvolta, di avere nostalgia di un luogo lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo, quando eravamo più giovani. Così il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio. E se andiamo in quel luogo, ci accorgiamo dell’inganno.

Quando io ritorno nel mio paese nativo, nel Cilento – da cui sono andato via quando avevo poco più di vent’anni – cerco, ma non trovo, il luogo della mia infanzia e della mia spensieratezza. Resta solo la “nostalgia del tempo vissuto in quel luogo”, e ogni volta sono insidiato da una lieve malinconia dovuta al “tacito infinito andar del tempo” (parole di Leopardi) che rimanda al declino delle cose e mi fa pensare che tutto è destinato a finire.

Come quell’antico frantoio – ù trappìto, per noi del paese - che non esiste più, dove le olive venivano frante da due enormi ruote di granito (dette molazze), azionate da un motore elettrico all’interno di una grande vasca di acciaio. Luogo di lavoro, di sacrifici, di memorie, ma anche ritrovo per noi ragazzi di paese - nei lunghi e piovosi pomeriggi invernali, quando i compiti scolastici potevano anche aspettare - quel frantoio si carica di valori inestimabili, legati alla terra, alla produzione dell’olio d’oliva, alle tradizioni contadine e al senso quasi religioso del lavoro.

Lo sento ancora nelle narici quel flusso di aria calda e quell’odore forte e pungente di olio che mi investivano appena entravo nel frantoio. In un angolo c’era una grande stufa di ghisa sempre accesa, alimentata con la sansa, si chiama così il residuo secco della spremitura delle olive. Mi piaceva stare seduto lì, su una panca in un cantuccio, ad osservare il via vai dei clienti e dei curiosi che entravano, anche solo per stare un pò al caldo o per fare due chiacchiere, gustando una bruschetta con l’olio nuovo. Mi lasciavano tranquillamente scorrazzare e curiosare attraverso i locali adibiti alla lavorazione (oggi sarebbe una cosa impensabile), e ricordo che non mi stancavo mai di osservare quelle due gigantesche macine che giravano e giravano, schiacciando le olive. Fino ad ottenere una morbida pasta che poi veniva spalmata su dei dischi di corda (i fiscoli), impilati uno sull’altro su una pressa idraulica. Da quella pressatura usciva, poi, un liquido scuro che veniva convogliato in una vasca e ulteriormente lavorato da una centrifuga (il separatore) con la funzione, appunto, di separare l’olio dall’acqua. Rimanevo affascinato da quella ritualità artigianale, da quel movimento operoso di macchine e di uomini, dalla gestualità degli operai e dal linguaggio che gli stessi usavano. Ricordo ancora l’anziano signore addetto al separatore, lo chiamavano Don Antonio: era il padrone del frantoio, un uomo alto e asciutto, con i capelli bianchissimi che incuteva timore. Era il primo ad assaggiare l’olio nuovo con un dito, e poi ci chiamava a raccolta, sorridendo, per farlo assaporare anche a noi su una fetta di pane. Eravamo felici di partecipare a quel rito. Di stare lì, in quel luogo, che assicurava una sorta di familiare protezione E ancora più felice appariva lui, il capo del frantoio: Don Antonio, che dirigeva questa sua creatura a gesti, senza parlare, come un maestro d’orchestra. Quel colore verde intenso dell’olio appena spremuto, quel profumo inebriante, quel sapore asprigno, tutte quelle sensazioni mi sono rimaste impresse nella mente. E mi sento un privilegiato per aver  vissuto certe esperienze formative, precluse ai ragazzi di oggi che abitano in città.



Come ogni anno, di questi tempi, ritorno al paese per la raccolta delle olive. La mia grande passione. Ho ereditato da mio padre un piccolo terreno agricolo situato in collina, con diversi ulivi secolari ed altri più giovani piantati dal sottoscritto, oltre trent’anni fa. Il raccolto lo trasporto - ogni due/tre giorni - nel piccolo frantoio non lontano dalla mia campagna. E’ un impianto moderno che usa macchine molto sofisticate con frangitori a dischi rotanti, a controllo elettronico: niente a che vedere con le macine in pietra…i fiscoli…la pressa idraulica. Anche il frantoio ha subito, in questi ultimi anni, un processo di trasformazione non dissimile da tutti gli altri contesti produttivi. Nuove macchine che consentono la lavorazione di una maggiore quantità di olive, limitando l’esposizione delle stesse agli agenti atmosferici e preservandone le proprietà organolettiche, per una migliore qualità dell’olio prodotto. Nel frantoio non ci sono più ragazzini spensierati che girano tra i locali, manca la stufa accesa con la sansa, non ci sono i “perdigiorno” per fare quattro chiacchiere e assaggiare l’olio nuovo sulla bruschetta. Tutto funziona alla perfezione, i locali sono quasi asettici, rispetto a quelli di antica memoria, le lavorazioni sono tutte meccanizzate. Al posto del vecchio frantoiano alla Don Antonio, c’è un giovane imprenditore che ha studiato scienze agrarie ed alimentari e manovra le sue macchine con un computer. Il suo compito è quello di ottenere il migliore olio possibile, nel rispetto del territorio e delle tradizioni: e devo dire che ci riesce molto bene. L’evoluzione della tecnologia ha portato migliori condizioni di lavoro anche in questo settore, ed una qualità superiore del prodotto finale, questo nessuno lo mette in dubbio. Ma resta intatto il fascino per quei vecchi frantoi di una volta, custodi e  testimoni di antichi saperi che ci permettono, ancora oggi, di rivivere le tradizioni rurali dei nostri antenati.