Tra i pochi privilegi che
riserva la “vecchiaia” c’è sicuramente quello di poter rileggere certi libri ricordi
di gioventù, dopo aver avuto tutto il tempo per dimenticarli, seppure solo parzialmente
per non sentirsi completamente smemorati. Nabokov sosteneva che non si può
leggere un libro, lo si può soltanto rileggere perché leggerlo una volta sola è
quasi come non aver letto affatto. Solo a una terza o quarta lettura riusciamo
a possederlo mentalmente nella sua interezza. Io, per esempio, con “Prima
che il gallo canti” di Cesare Pavese sono già alla terza. E non è detto che
sia l’ultima! Lo lessi la prima volta durante gli anni del liceo, quando leggere
Pavese era quasi un obbligo: e mi piacque. Però la giovane età non mi consentì
di cogliere certe essenziali sfumature per comprenderlo al meglio. Se in
seguito lo ripresi, è perché mi aveva lasciato dentro qualcosa di profondo, su
cui mi piaceva ritornare. Ed ora eccomi al terzo giro che nasce da una curiosa
coincidenza: sfogliando, giorni fa, la mia vecchia e ingiallita e sottolineata
e sbrindellata edizione del 1969 (Oscar Mondadori Lire 750), mi sono accorto
che mancavano all’appello le ultime pagine dell’ultimo capitolo. Chissà dove
saranno andate a finire! Potevo mai rimanere indifferente di fronte a questa
mancanza, visto che non ricordavo neanche come andasse a finire? E allora mi
sono recato in libreria a comprarlo, scegliendo una bella edizione pubblicata
da Garzanti e riccamente commentata dal critico letterario Gabriele Pedullà. Ora,
sarà stata la nuova veste grafica, sarà stata pure l’occasione di avere tra le
mani un romanzo letto in età giovanile – e si sa quanto gli amori giovanili durino
poco ed abbiano una scadenza breve, come il latte - fatto sta che ho avuto come
l’impressione di leggere Prima che il gallo canti per la prima volta. E
devo dire che è stata una gradita e piacevole sorpresa. Qualche lettore un po' malizioso
direbbe che si tratta proprio di uno scherzo della vecchiaia che, fiaccando in
profondità la memoria, ti fa dimenticare pure ciò che hai mangiato a pranzo. Figuriamoci
un libro letto tanti anni prima. Certo, l’entusiasmo provato la prima volta è
senz’altro diverso da quello di oggi, perché il trascorrere del tempo cambia
anche le nostre percezioni. E questo mi fa pensare che se formuliamo un
giudizio definitivo su un libro non possiamo, poi, appassionarci su ciò che ha
da offrirci nel momento in cui andiamo a rileggerlo.
Comunque sia, io credo che i
libri che più amiamo (a contarli non sono poi molti), che teniamo sempre a portata
di mano e che si fanno prendere soprattutto in certi particolari momenti della
nostra vita, non si scordano mai. Si fanno leggere e rileggere anche a distanza
di tempo e ogni volta rinnovano emozioni, ricordi, sentimenti. Sono come quelle vecchie canzoni senza tempo
che non ti stanchi mai di ascoltare. Prima che il gallo canti è un libro
che non ti fa sentire mai solo nonostante parli della solitudine dell’uomo, dei
tormenti della sua coscienza, della sua inadeguatezza esistenziale. Anzi, ha proprio
la capacità di sortire l’effetto contrario sul lettore perché sa conquistare la
sua complicità. E il lettore arriva anche a riconoscersi nel malessere del
protagonista del libro fino a scoprire che quel malessere, quella condizione di
solitudine, quei nodi conflittuali e tormentati dell’esistenza sono anche i
suoi.
Prima che il gallo canti
comprende due racconti scritti da Pavese a distanza di quasi dieci anni l’uno
dall’altro: Il carcere, che trasfigura l’esperienza del suo confino in
un paesino della Calabria (Brancaleone Calabro); e La casa in collina
che affronta la sua mancata partecipazione alla Resistenza, il tradimento cui
allude il titolo del romanzo, tratto dal famoso brano del Vangelo. Il carcere,
per Pavese, più che un luogo fisico è uno stato d’animo, un modo di sentire e
di stare al mondo; simboleggia un sentimento di estraneità che lo isola dalla
realtà e lo accompagna come un’ombra per tutta la vita. E questa consapevolezza
emerge dalle parole del protagonista del romanzo - Stefano, alias Pavese -
quando dice: “Le nuvole, i tetti, le finestre chiuse, tutto in quell’attimo
era dolce e prezioso, tutto era come uscire dal carcere. Ma poi? Meglio
restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”. Il carcere si
identifica, quindi, con la vita stessa. Ed è una condizione esistenziale che
forse non risparmia nessuno. Ma solo pochi la riconoscono, questa condizione -
e tra questi gli scrittori che la sublimano - mentre i più la vivono, ignari. Anche La
casa in collina ha un suo significato metaforico che va oltre il racconto
dei bombardamenti su Torino durante l’ultima guerra: è il luogo dell’anima dove
Corrado - l’altro Pavese – si rifugia per scappare dalle sue responsabilità,
dai suoi rimorsi, dalle sue paure. E’ il luogo che lo protegge, al riparo dai
pericoli della vita ma anche dai legami umani. E chi, almeno una volta nella
vita, non ha sentito quel bisogno di fuggire dal mondo? E, forse, di fuggire da
sé stessi?
Se ogni libro lo leggessimo tre/quattro volte, di libri nel leggeremmo davvero pochi. O no? :)
RispondiEliminaFrancesco
Diceva Flaubert: “Come saremmo saggi se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri”. Però bisognerebbe sapere, mi permetto di aggiungere - e Flaubert non ce l’ha detto – quali dovrebbero essere questi libri per acquisire la saggezza di cui parla lo scrittore francese. Comunque, caro Francesco, è chiaro che non tutti i libri si fanno rileggere. Ce ne sono alcuni – anzi tantissimi – che affollano le nostre librerie e non si possono leggere neanche una volta. Eppure sono i più venduti! E Pavese, di fronte a questi “scrittori” di ultima generazione, è un perdente. Come i suoi lettori che si ostinano ancora oggi a rileggerlo. Un saluto 😊
Eliminala frase di Pavese che riporti in grassetto è emblematica non solo del suo sentire complesso, "leopardiano", ma anche di uno stato d'animo a tanti di noi che spesso ci sfiora (...sognare di uscirne che non uscirne davvero)
RispondiEliminaml
E’ vero: il “carcere” può essere visto anche come una sorta di “busto” ideologico e morale che in qualche maniera ci protegge e da cui facciamo fatica ad uscirne. Un busto metaforico che permettendo certi movimenti ed impedendone altri, consentendo certe libertà ed escludendone altre, ci dà la sicurezza che cerchiamo, senza dover perennemente scegliere e decidere la strada da percorrere e le cose da fare.
EliminaCiao Carlo
Sono forse finito in spam! provo a riformulare.. io preferisco comunque leggere cose nuove, per quanto avvalori senz'altro l'idea che "rileggere" fornisca sempre nuove chiavi, a seconda delle circostanze e del come ci si dedichi, ma sono troppo curioso nel cercare nuovi stimoli anche se tante volte la delusione rimane sentimento principale.. e leggere poi, non è forse quel "fuggire da sé stessi"?
RispondiEliminaIo invece - da un pò di tempo a questa parte - non faccio altro che rileggere. Ho come l'impressione che sia già stato scritto tutto e le "cose nuove" altro non sono che degli adattamenti, a volte mal riusciti. Trovo che la produzione letteraria attuale sia alquanto artificiosa, costruita a tavolino per vendere qualche copia in più, sollecitare certe morbosità e soddisfare la moda del momento. Io preferisco quei libri un pò invecchiati, lontani dal presente e dalla "vita del condominio", come diceva Sebastiano Vassalli. Certo, quando capita leggo anche "le novità": mi servono per poter ritornare, con maggiore convinzione, alle mie amate riletture :)
EliminaCiao Franco e stammi bene
Prima che il gallo canti ...mi rinnegherai tre volte,ho pensato subito al seguito di questo titolo lo ammetto e non perché dessi minore importanza a Pavese ,ma perché ne vedevo un collegamento con uno di quei libri spesso tanto criticato senza averlo mai letto ,mi riferisco alla Bibbia.Mi dirai cosa ci azzecca la Bibbia con Pavese...ci azzecca tanto invece.
RispondiElimina"CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, 1952.
Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi".
Ho il "vizio "di rileggere spesso la Bibbia e li scorgo perfino Pavese,che ha saputo fare delle sue parole quel "sugello di conferma su altre pagine".
A volte la bellezza si fonde oltre ad infondere ...
Buona serata
“Prima che il gallo canti” è un titolo che colpisce l’immaginazione del lettore e rimanda, immediatamente, alla Bibbia a cui si è ispirato Cesare Pavese per raccontarsi. E lo fa attraverso i protagonisti (Stefano e Corrado) dei due racconti "Il carcere" e "La casa in collina" che il titolo del romanzo riunisce. La Bibbia che tu leggi (ed è un libro che tutti dovremmo leggere, a prescindere dal credo religioso), ci “azzecca” eccome con lo scrittore piemontese, che io amo. In tutti i suoi scritti, a cominciare da Il mestiere di vivere e, soprattutto, dalle sue lettere indirizzate agli amici e alla sorella Maria, affiora il fascino che Pavese percepiva per la figura di Cristo quale personaggio storico. Inoltre, in occasione del suo confino politico a Brancaleone Calabro, per le sue posizioni contro il Fascismo, confessava alla sorella in alcune lettere di dedicarsi alla lettura della Bibbia. Cesare Pavese era uno spirito religioso che viveva la sua esistenza in solitudine, attanagliato dal dubbio e dall’inquietudine. In una lettera, inviata da Roma, al suo grande amico e confidente religioso padre Giovanni Baravalle di Casale Monferrato (che ritroviamo nel romanzo “Prima che il gallo canti” con l’appellativo di padre Felice), qualche anno prima di morire suicida in una camera d’albergo a Torino, diceva di essersi recato in una chiesa e gli era parso che una mano invisibile lo respingesse: "Forse non sono degno di avvicinarmi a Dio". Fu, questa, la sua dolorosa e amara confessione.
EliminaUn saluto
Grazie infinite per questo bellissimo e interessante arricchimento.
EliminaBuona serata
Senza il tuo input non avrei potuto esprimere nessun "arricchimento" (sorrido..)
EliminaGrazie a te e buona domenica