E’ difficile pensare che un libro, sterminato e complesso come la
Recherche di Proust, si possa leggere due volte; sempreché ci si riesca la
prima volta, naturalmente. Eppure, il grande scrittore russo Nabokov sosteneva
che non si può leggere un grande libro: lo si può soltanto rileggere. Solo
rileggendolo più volte ci si può avvicinare alla sua vera essenza e possederla.
“Alla ricerca del tempo perduto” è una delle opere più grandi che siano
mai state scritte. E’ un libro che ti annienta, ti sovrasta, ti fa sentire
piccolo piccolo; ti fa capire che oggi, nell’attuale panorama letterario, non esistono
scrittori capaci di eguagliare lo stile di Proust. La sua scrittura. Quello che
più mi affascina di Proust è la sua immensa abilità tecnica, la sua mostruosa
bravura di spezzettare un’idea, un concetto in mille rivoli e di creare effetti
speciali con le sue figure retoriche, i suoi paradossi, le sue metafore, le sue
dettagliate descrizioni anche di particolari apparentemente insignificanti; e
poi quella sua impareggiabile attitudine nel tratteggiare i caratteri
psicologici dei vari personaggi. Esiste uno strumento artistico, che è la
scrittura, e Proust la usa ad un livello altissimo e coltissimo –
irraggiungibile - che mi lascia esterrefatto.
Sto rileggendo “Dalla parte di Swann”,
il primo dei sette volumi de la Recherche. Lo sto sorseggiando con estrema
lentezza. Leggere Proust non è come leggere uno scrittore qualsiasi, fosse
anche il più bravo. Richiede un impegno diverso; un tempo diverso; una diversa disposizione
d’animo. Mi viene quasi da pensare che occorre “ruminare” quel che si legge,
sostare il più a lungo possibile sulle parole per avere il tempo di gustarne il
sapore, la bellezza. E tornare indietro, quando serve. Vi puoi trovare, nell’opera
di Proust, pagine lunghissime che ti annoiano e altrettante che ti esaltano. E
sono proprio quest’ultime che ti invogliano e ti stimolano a rileggerle più
volte, fino a farle tue. Perché il modo migliore, per avere coscienza di ciò
che senti, è quello di affidarti ad un maestro, ricreando in te le sue stesse
sensazioni. Proust è un autore che va centellinato a piccole dosi, altrimenti
ne esci spossato: non è pensabile che possa essere letto “tutto d’un fiato”, e
forse per questo non si finisce mai di leggerlo. Lui ha rappresentato e
analizzato tutti i grandi temi dell’esistenza, ha indugiato sui sentimenti e
sulle passioni degli uomini e ci ha lasciato pagine memorabili. Mi piace
riportare di seguito – come faccio quasi sempre quando parlo di libri - un
passo tratto da “Dalla parte di Swann”. Se dovessi dare un titolo a
questa straordinaria pagina di letteratura – Proust mi perdonerà – direi:
“odori e sapori di provincia”. Il “Narratore” è appena arrivato con il treno a
Combray, nella casa della zia Léonie, dove la sua famiglia trascorre le vacanze.
Descrive ciò che vede e ciò che sente. E’ una pagina, questa, che io leggo e
rileggo senza mai riuscire a saziarmene.
“Erano di quelle stanze di provincia che – così come in certi paesi intere
porzioni dell’aria o del mare sono illuminate o profumate da miriadi di protozoi
che non possiamo vedere – ci affascinano con i mille odori in esse depositati
dalle virtù, dalla saggezza, dalle abitudini, da tutta una vita segreta,
invisibile, sovrabbondante e morale tenuta in sospensione dall’atmosfera; odori
ancora naturali, certo, e color del tempo come quelli della vicina campagna, ma
già casalinghi, umani e claustrali, gelatina squisita, industriosa e limpida di
tutta la frutta dell’anno che ha lasciato l’orto per la dispensa; stagionali,
ma mobili e domestici, capaci di correggere il piccante della brina con la
dolcezza del pane caldo, pigri e puntuali come un orologio di villaggio,
bighelloni e costumati, incuranti e previdenti, lingeristi, mattinieri, devoti,
felici d’una pace dalla quale non può provenire che un po' più di ansia e d’una
prosaicità che funge da inesauribile serbatoio di poesia per chi li attraversa
senza aver vissuto con loro. L’aria, lì, era satura della quintessenza di un
silenzio così’ sostanzioso, così succulento, che non m’addentravo in esso senza
una sorta di golosità, soprattutto in quei primi mattini ancora freddi della
settimana di Pasqua in cui lo gustavo di più perché ero appena arrivato a
Combray: prima di lasciarmi entrare ad augurare il buongiorno alla zia, mi
facevano attendere un istante nella prima stanza dove il sole, ancora
invernale, era venuto a scaldarsi davanti al fuoco che, già acceso tra i due
mattoni, avvolgeva tutta la camera in un odore di fuliggine, facendone qualcosa
come uno di quei grandi “antiforni” di campagna o una di quelle cappe di camino
dei castelli sotto i quali ci si augura che fuori rompano gli indugi la
pioggia, la neve, magari qualche catastrofe diluviesca per aggiungere al
confort del riparo la poesia della reclusione invernale; muovevo qualche passo
dall’inginocchiatoio alle poltrone di velluto arabescato, sempre ricoperte con
un poggiatesta all’uncinetto; e il fuoco, che cuoceva come una pasta gli odori
appetitosi di cui l’aria della camera era tutta grumosa e già “lavorati” e
fatti lievitare dalla freschezza umida e soleggiata del mattino, li tirava a
sfoglia, li dorava, li gonfiava, li faceva bombare, trasformandoli in
un’invisibile e palpabile leccornia provinciale, un immenso “calzone” nel
quale, assaggiati appena gli aromi più stuzzicanti, più fini, più pregiati, ma
anche più secchi, dell’armadio a muro, del cassettone, della tappezzeria a ramages,
tornavo sempre con inconfessata ingordigia a invischiarmi nell’odore medio,
appiccicoso, scipito, indigesto e fruttato del copriletto a fiori…”.
"mi facevano attendere un istante nella prima stanza dove il sole, ancora invernale, era venuto a scaldarsi davanti al fuoco..." Un'immagine davvero straordinaria. Francesco
RispondiEliminaCi vuole tanta fantasia per immaginare un sole invernale che si riscalda davanti al fuoco di un caminetto...ma stiamo parlando di Proust. Ciao Francesco
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