In queste lunghe giornate di isolamento forzato,
velate di malinconia, di paura e di pensieri, mi capita spesso di stare da solo, in silenzio, cercando di scacciare quel “tarlo” che continua in
maniera ostinata a scavare nel corpo e nella mente di ognuno di noi, lasciando
segni indelebili difficili da emarginare, almeno in tempi brevi. Passo lunghe
ore a leggere, e poi ad osservare e curare i fiori sul balcone di casa, e poi a
conversare con mio figlio, e poi a guardare qualche programma televisivo, per
lo più documentari (io che guardo poca televisione), cercando di essere attento
a non subire dosi eccessive di informazioni no stop sul coronavirus. Secondo lo
psichiatra Raffaele Morelli dobbiamo assolutamente evitare di stare incollati
al televisore e sui social, dobbiamo allontanare dalla nostra mente questi
problemi angosciosi - che alla lunga diventano devastanti per il nostro
equilibrio psico-fisico - ed iniziare ad immaginare e fare altro, perché la
parte sognante del cervello è un farmaco, forse il farmaco più potente, che
allontana le preoccupazioni sullo sfondo.
E così mi è capitato, l’altra sera, di
soffermarmi a lungo – come non mi era mai capitato di fare in precedenza – su
un piccolo quadro appeso ad una parete della mia camera. Che strano: sta lì da
chissà quanto tempo e non aveva mai ricevuto così tanta attenzione da parte
mia. Come a dire che a volte trascuriamo le cose vicine per un altrove che
riteniamo migliore. Questo dipinto è stato realizzato da una brava e
sconosciuta pittrice contemporanea, Cristina Mazzoni, ed ha per soggetto una
donna seduta su un muretto in un giardino con accanto una bambina –
nell’intenzione dell’artista, probabilmente, madre e figlia – il cui delizioso
abbigliamento rococò rimanda ad un’epoca lontana, di altri tempi.
Cristina Mazzoni - Damine |
Chissà quali
sentimenti avranno guidato la mano della pittrice nel fissare sulla tela
quell’immagine all’aria aperta, così delicata, che infonde una piacevole
serenità, soprattutto di questi tempi. Devo dire che chiunque si trovasse a
guardare questo quadro – anche il più sprovveduto degli osservatori – non potrebbe
non riconoscere la bellezza della rappresentazione; e nessuno, almeno così
credo, potrebbe sostenere di non capire il significato dell’opera. D’altra
parte, così non sarebbe se lo stesso spettatore si trovasse al cospetto di una
forma d’arte assolutamente diversa, non facile da comprendere, da indurlo
perfino a mettere in discussione il fatto stesso che sia arte, come il quadro
astratto sotto riportato dipinto da Paul klee.
Alla luce di queste osservazioni, io non credo
che esista un modo corretto di guardare un’opera d’arte o che si possa, tanto
meno, insegnare la giusta maniera per apprezzare la bellezza. Ognuno di noi,
nell’osservare un quadro, è inevitabilmente influenzato da tante cose che vanno
ad incidere sulla propria scelta, sulla propria reazione emotiva: la maggiore o
minore sensibilità, l’educazione ricevuta, l’istruzione, l’ambiente socio familiare
in cui vive. E’ come dire che spesso vediamo non tanto quello che un dipinto ci
mostra, quanto ciò che siamo o ciò che conosciamo. E fino a quando tali condizioni
ci consentono di trarne beneficio, non esiste alcun problema estetico: il bello
che scorgiamo in un’opera d’arte ci viene incontro e ci dà piacere e conforto.
Ma quando nella visione subentra un pregiudizio, quando scartiamo o
consideriamo brutto un quadro che – per esempio - ha per soggetto una montagna
innevata, mentre noi amiamo solo il mare, allora dobbiamo riconoscere le nostre
ragioni sbagliate che, senza alcun fondamento estetico, ostacolano la ricerca
del bello e ci privano di un piacere che altrimenti proveremmo.
In un quadro noi cerchiamo sempre quelle
atmosfere e quelle sensazioni che più amiamo. Se uno dice di essere attratto
dalla luce e dalla vita all’aria aperta, esprime un suo gusto personale che lo
porta, probabilmente, a preferire la pittura degli espressionisti ed in
particolare quella di Renoir. Qualcun altro potrebbe affermare che
i contorni sfumati delle figure dipinte nei quadri del pittore francese, non riescono
a trasmettergli quella tensione emotiva e quella bellezza che scorge, invece, nelle
tele del Caravaggio, con quel suo gioco di luce e ombra dove i personaggi così
ben delineati sembrano vivi, appena usciti da un contesto reale. Evidentemente
sono percezioni differenti, che rimandano a sensibilità e preferenze diverse: il
primo ama le situazioni delicate, un po’ sfumate, il secondo quelle intense e
drammatiche. Non è pensabile, però, che colui a cui piace Caravaggio possa dichiarare
che la pittura di Renoir sia brutta.
Come ci insegna
il grande storico dell’arte Ernst Gombrich – autore di uno dei libri più belli
che siano stati scritti sulla storia dell’arte - la bellezza di un quadro non
risiede solo ed esclusivamente nella bellezza del soggetto rappresentato.
Quando il pittore tedesco Albrecht Durer dipinse nel 1500 il suo famoso “autoritratto con pelliccia”, simile ad
un Gesù Cristo sceso in terra, probabilmente desiderava esprimere tutto il suo
narcisismo e voleva che anche noi ammirassimo la sua bellezza, quasi divina.
Durer - autoritratto |
Probabilmente
ci riuscì, perché quel disegno esprime fascino ed attrazione. Tuttavia la
seduzione per i soggetti belli nell’arte non deve indurci a respingere opere
che raffigurano soggetti meno belli. Anche il grande pittore olandese Rembrandt
disegnò, negli ultimi anni della sua vita, un suo ritratto e a quest’opera
dedicò tutto il suo impegno artistico, certamente lo stesso impegno che Durer
aveva riservato alla sua effige.
Rembrandt - autoritratto |
Il volto di Rembrandt non è bello come quello
di Durer, tuttavia non si può dire che non abbia una sua forte intensità
espressiva; quindi entrambi i quadri meritano il nostro interesse perché hanno
la straordinaria capacità di evocare - con assoluta sincerità - la vanità
dell’uomo (il primo) e la sua decadenza fisica, il secondo. Ciò che siamo ci
viene raccontato dalla maestria di questi due artisti i quali sono riusciti a
convertire in forme comprensibili i sentimenti umani.
Ma l’artista
crea anche attraverso la propria immaginazione, rende visibile qualcosa che,
forse, non riusciremmo mai ad immaginare, pur sollecitando attraverso la sua
opera la nostra stessa immaginazione. Quando l’autore de “la città ideale” dipinse, nella seconda metà del 1400, questo
famoso quadro che viene attribuito a tre diversi artisti (Piero della
Francesca, Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini), intendeva
rappresentare gli ideali di perfezione, di armonia e di bellezza di un tessuto
urbano rinascimentale. E non poteva immaginare altro.
La città ideale |
Ora, osservando bene
questa raffigurazione, il mio pensiero non può che andare alle immagini – direi
molto belle, se non avessimo quel “tarlo” nella testa che ci perseguita e
deforma anche la nostra visione - delle tante, magnifiche piazze del nostro
Paese, svuotate e rese quasi spettrali dal contagio che ci perseguita. E come
non pensare, poi, alla pittura di Mario Sironi.
Mario Sironi - paesaggio urbano |
Chiunque abbia presente la sua
arte sa che l’artista sardo amava trasferire sulla tela suggestioni metafisiche
e surreali, atmosfere cupe e desolate. Spesso dipingeva paesaggi urbani
alienanti da cui non traspare la bellezza che si può cogliere nel dipinto
precedente, ma soltanto solitudine. La solitudine dell’uomo nel suo contesto
abitativo. Sembra quasi che bellezza e solitudine si rincorrano e si uniscano,
nell’arte come nella vita. Oggi, forse nel momento più tragico della nostra
esistenza, quando vediamo i nostri centri storici - autentici scrigni di
bellezza – senza la presenza umana, ci assale un profondo e indescrivibile
malessere. Eppure, prima del coronavirus, chissà quante volte, passeggiando per
gli stessi luoghi sovraffollati e rumorosi ci è capitato di provare horror
pleni, in contrapposizione all’horror vacui che stiamo vivendo.
Roma - piazza del pantheon |