“Esistono
realtà iscritte in ogni destino, di cui solo a posteriori ci è dato valutare
l’importanza”
Primi anni ’60 del secolo scorso: il mondo era stato
sull’orlo di una nuova guerra e faticava a dimenticare i mesi bui della rivolta
di Budapest contro i russi, la spedizione anglo-francese sul canale di Suez, le
lotte sindacali nelle piazze… Ma era viva in molti la speranza che un’epoca
nuova stesse per arrivare, un periodo di pace duratura e di benessere per tutti:
la crescente popolarità del nuovo Papa Giovanni XXIII; i buoni rapporti tra
Krusciov ed Eisenhower; il rovesciamento del governo corrotto a Cuba ad opera
di un giovane avvocato di nome Fidel Castro, erano avvenimenti, questi, che
facevano ben sperare. E poi, l’arrivo della televisione con “lascia o
raddoppia” e la produzione intensificata di radioline sempre più piccole; il
ronzio delle cineprese nei cinematografi; l’abbandono dei campi da parte dei
contadini meridionali per un posto in fabbrica alla Innocenti o all’Alfa; le
prime cliniche private dove le mamme di solida borghesia davano alla luce i
loro rampolli; la diffusione dei rotocalchi che permettevano alle masse di
poter spiare da vicino gli scandali e gli amori dei potenti e dei vip; la
rivalità Bartali-Coppi; la bellezza femminile esaltata dalla moda, dalla
pubblicità e dai concorsi attraverso una
scollatura audace, una bocca rossa ben disegnata, una movenza allusiva; le
prime macchine sportive che celebravano l’ebbrezza della velocità; la corsa
agli acquisti e ai divertimenti; l’arrivo del cha-cha-cha dal Sudamerica e le
canzoni dei Platters che dilagavano dai juke-box sulle spiagge, sulle
passeggiate a mare, nei caffè. Tutto sembrava presagire un mondo nuovo,
migliore, un’era di benessere e di serenità: stavano per arrivare gli “anni beati”,
gli anni del boom economico, in un’Italia che credeva ai miracoli.
In questa cornice prende il
via la storia immaginata da Carlo Castellaneta (nato a Milano nel 1930 e morto
a Palmanova nel 2013) nel suo romanzo “Anni
beati”, pubblicato da Rizzoli una quarantina di anni fa. Un libro oramai
fuori catalogo, che si può trovare solo sui banchi di qualche mercatino
dell’usato; un libro che – grazie alla bella scrittura di un autore che
andrebbe rivalutato – spinge a riesaminare un periodo della nostra storia
recente con una maggiore tranquillità di giudizio. E perché no: con una certa nostalgia
per chi, come il sottoscritto, non è più un giovincello. Ambientato nel capoluogo
lombardo tra il 1957 e il 1961, Castellaneta dipinge uno spaccato della
nascente borghesia imprenditoriale in quella Milano del “miracolo economico”,
sebbene la povertà fosse ancora evidente, assoggettata com’era dal lusso di
pochi. Ma il romanzo è incentrato, soprattutto, su una storia d’amore idealizzata
e struggente, una passione amorosa solo vagheggiata, una vera e propria
ossessione tra un giovane architetto (Claudio) - sposato con Simona, una delle
due figlie del padrone della fabbrica in cui lavora - che si innamora perdutamente
dell’altra (Paola, sua cognata), a sua volta maritata con Alessandro. Una vicenda,
questa, quasi banale e scontata, che solo l’eccezionale abilità stilistica di
uno scrittore poteva elevare ad opera letteraria. Castellaneta è molto bravo a
descrivere i moti dell’animo e le contraddizioni di una passione amorosa; sa
scrutare gli slanci soffocati del protagonista nei confronti di quel desiderio
ostinato di cui non riusciva a sbarazzarsi; esprime la tenerezza e la rabbia di
cui lo stesso era vittima a fasi alterne “quasi che l’esistenza di Paola
rappresentasse, a seconda dei giorni, motivo di letizia oppure di sconforto”;
racconta, con delicatezza, le fantasie e le paure di un amore come questo “clandestino
e senza speranza, certo il più puro che esista”.
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