Tra gli scrittori del
Novecento che più ho amato – oltre a Pavese e Svevo - c’è sicuramente Alberto
Moravia. Credo di aver letto - soprattutto durante gli anni giovanili - quasi
tutti i suoi romanzi e molti dei suoi saggi. Non penso che nell’attuale
panorama letterario italiano ci sia un autore che sappia descrivere le
inquietudini esistenziali che oggi viviamo, con la stessa autorevolezza e con
lo stesso sguardo disincantato con cui Alberto Moravia raccontava la decadenza
morale della sua epoca, vista attraverso le vicende dei personaggi dell’alta
borghesia romana.
Quando si parla di Moravia, il
pensiero va subito al suo romanzo più famoso, “Gli indifferenti”. Egli disse di
averlo scritto proprio perché stava dentro la borghesia e non fuori. E che se
fosse stato fuori, come alcuni sembravano pensare attribuendogli intenti di
critica sociale, avrebbe scritto un altro libro dal di dentro di quella
qualsiasi altra società o classe sociale a cui avesse appartenuto. Nonostante praticasse
idee di sinistra, Moravia era un borghese e quindi si immedesimava in quei suoi
eroi negativi e insofferenti, forse per acquisire consapevolezza di quella sua
condizione sociale. E forse per contrastarla. Una volta dichiarò che prima
ancora che scriverne, desiderava vivere la tragedia in cui si divincolava la
borghesia e tutto ciò che era passione spinta e “violenza” lo attraeva profondamente, mentre la vita
normale, non solo non gli piaceva ma lo annoiava perché gli appariva come una
cosa priva di sapore.
Ricordo di averlo incontrato,
per caso, un giorno di una trentina di anni fa: era il 1990, l’anno della sua
morte. Camminava per il centro di Roma, dalle parti di Piazza del Popolo, con
la sua andatura claudicante, in compagnia della seconda moglie, quella Carmen
Llera di 45 anni più giovane di lui. Avrei voluto fermarlo un momento per dirgli
che apprezzavo la sua scrittura; per chiedergli il perché di quella sua
ossessione letteraria verso l’aristocrazia romana e verso quella frenesia
erotico-sessuale dei suoi personaggi; per avere magari un suo autografo, io che
non ho mai chiesto autografi a nessuno. Ma non me la sentii di disturbarlo. Però
gli andai dietro per un po’, quasi per tentare di trovare quel coraggio che mi
mancava per parlargli o forse per carpire qualche sua intima parola, prima che
entrasse in un cinema di Via del Corso, dove proiettavano un bellissimo film
che ancora ricordo: era “Balla coi lupi”, diretto e interpretato da Kevin
Costner. La sua recensione - allora collaborava anche con l’Espresso - la
lessi, qualche giorno dopo, su quella rivista e mi colpì positivamente, tant’è
che decisi di andare al cinema a vederlo.
E’
da un po’ di tempo che volevo rileggere Moravia. Uno scrittore che appare ancora
oggi insuperabile - sia come romanziere che come saggista - se lo confronto con
certi scribacchini dei nostri tempi. Mi
è capitato così tra le mani “La Noia”,
romanzo pubblicato nel 1960 da Bompiani (l’anno successivo avrebbe vinto il
Premio Viareggio). E’ forse il libro che meglio di tutti descrive quell’espressione
esistenziale dello scrittore romano che - come ben si vede nella foto sopra
riportata - lo fa apparire perennemente annoiato. Ed è il libro che più si
avvicina, secondo me, all’esistenzialismo di Sartre delineato nel suo
capolavoro letterario, “La Nausea”. Sia il protagonista che esce dalla penna di
Sartre (lo scrittore Roquentin) che quello di Moravia (il pittore Dino) sono
delusi dalle rispettive ambizioni artistiche; entrambi si interrogano sulle
ragioni profonde della propria esistenza e vengono travolti, il primo dalla nausea
e il secondo dalla noia. Roquentin prova nausea per tutto ciò che lo circonda e
per quelle azioni di tutti i giorni per le quali i suoi concittadini si sentono
vivi e normali, azioni che a lui invece provocano solo disgusto e repulsione:
il lavoro, il ritorno a casa, il menage familiare, la passeggiata domenicale.
Insomma il tran tran quotidiano.
Anche
Dino, il ricco rampollo trentacinquenne di un’aristocratica famiglia romana,
non vive un buon rapporto con la sua vita e con la realtà che lo circonda e
spera di poter ristabilire una qualche riconciliazione, soprattutto con se
stesso, attraverso l’espressione artistica. Ma questo non sembra funzionare,
perché in breve tempo abbandona il suo studio di pittura in via Margutta e
ritorna dalla madre, che vive in una lussuosa villa sull’Appia Antica e che lui
detesta. Così come detesta la società di sua madre e il suo denaro. Si ritiene
un pittore fallito, consapevole del suo fallimento. Ma non perché non sappia dipingere
dei quadri, che comunque piacciono agli altri, ma perché sente che la sua arte
non gli consente di esprimersi, e quindi di illudersi di avere un rapporto
normale con le cose e con le persone; in altre parole non gli impedisce di
annoiarsi. Dino aveva cominciato a dipingere proprio per sfuggire alla noia, ma
se continuava ad annoiarsi non c’era più ragione di dipingere. E poi c’era di
mezzo la sua ricchezza che lo induceva a pensare che esistesse un nesso inscindibile
tra la noia e il denaro e che se fosse stato povero non si sarebbe annoiato. Dino
passa le sue giornate senza alcuna occupazione, ha una mancanza completa di
radici e di responsabilità, è slegato da qualsiasi legame familiare e sociale e,
soprattutto, odia la società di cui fa parte la madre, pur attingendo dal conto
in banca della stessa ogni volta che ne sente il bisogno. “Non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente
fare qualche cosa – dice il protagonista - io sentivo che non volevo vedere gente ma neppure rimanere solo; che
non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma
neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non
dipingere; che non volevo stare sveglio ma neppure dormire; che non volevo fare
l’amore ma neppure non farlo; e così via…Ogni tanto, tra queste frenesie della
noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda
ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi
accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire”. L’
incapacità del protagonista di relazionarsi con il mondo e con gli altri -
vissuta attraverso un’ incessante autoanalisi – quel suo continuo malessere
esistenziale che sfocia poi nel disgusto e nella noia, lo scorgiamo anche nel
rapporto affettivo con la sua amante, Cecilia. A volte passa intere giornate a
pedinarla perché mira, spiandola, ad accertarsi del suo tradimento, ma non già
per punirla e comunque impedirle di portare avanti l’infedeltà, ma per
liberarsene definitivamente. E per separarsi da lei e placare la sua angoscia,
prende anche l’abitudine di pagarla ad ogni incontro amoroso, per provare lo
stesso sentimento di svalutazione che provava ogni qual volta retribuiva una
prostituta. Soffre terribilmente e attraverso la sofferenza si fa strada in lui
un’idea che gli appare estrema: forse la sola maniera per liberarsi di Cecilia,
e quindi di possederla davvero e conseguentemente di annoiarsi di lei era
sposarla. Non c’era riuscito avendola come amante, era quasi sicuro che ci
sarebbe riuscito una volta che fosse diventata sua moglie. “Immaginava con compiacimento che una volta sposata, Cecilia sarebbe
diventata una moglie qualunque, piena di occupazioni casalinghe e sociali
soddisfatta e senza mistero”. Contava di andare a vivere nella lussuosa
villa di sua madre. Quindi il matrimonio, la villa, la madre, la società della
madre “erano tutte parti della macchina
diabolica nella quale Cecilia sarebbe entrata demone enigmatico e leggiadro e
sarebbe riuscita signora borghese qualsiasi”.
Il
romanzo non presenta una precisa trama narrativa, non rispecchia i canoni
tradizionali della narrazione legati ad una storia con un’origine ed una fine.
“La noia” è un lungo e avvolgente monologo introspettivo di un uomo,
ossessionato dalle sue fantasticherie maniacali e sessuali. E Moravia,
attraverso questo suo perverso personaggio, scava con straordinaria capacità
letteraria in quel caos imprevedibile che è l’animo umano e ne tira fuori tutte
le sue insanabili contraddizioni.
Buongiorno carissimo,
RispondiEliminaMoravia è un mostro sacro della letteratura Italiana, "La Noia" è un capolavoro introspettivo e analitico, dopo di lui… il vuoto.
Buongiorno a te, carissimo Tads. Condivido le tue parole. Moravia è irraggiungibile per chi fa letteratura. Non per noi lettori, che lo ritroviamo ancora in libreria.
EliminaIo penso che Moravia, con il personaggio del libro, descriva se stesso. La noia era un sentimento che lo riguardava personalmente e quella foto ne è la dimostrazione. Credo che anche lui fosse ossessionato dal sesso, visto che è così presente nei suoi libri
RispondiEliminaSi, la noia era un sentimento che gli apparteneva e credo che lo abbia anche scritto. E poi ci sono quelle foto che lo ritraggono eternamente annoiato. Almeno così pare. Nei suoi libri c’è poi quel continuo richiamo dei sensi. Lui diceva che proprio questa sua continua frequentazione letteraria del sesso gli avesse impedito di prendere il premio Nobel. Tranne la prima moglie Elsa Morante, le sue donne ufficiali (Dacia Maraini e Carmen Llera) erano molto più giovani di lui. A sentire quest’ultima, però, pare che Moravia fosse quasi ascetico, mistico, anche se amava molto le donne. E sapeva raccontare, come solo pochi sanno fare, il lato irrazionale del sentimento dell’amore, prima ancora che l’aspetto erotico. Grazie per il tuo commento
EliminaAnch’io ammiro molto Moravia. E fra tutti i suoi romanzi che ho letto (e sono molti) “La noia” è forse il mio preferito. Dico forse perché non posso dimenticare opere come “Il conformista” “, Il disprezzo”, “La ciociara”, “La romana”, “Gli indifferenti”:.. Hai ragione ad accostarlo a Sartre, è la stessa temperie culturale. Fra i saggi ricordo “Un’idea dell’India”, traccia di un suo viaggio in quel paese, che fece con Elsa Morante e Pasolini, di cui era molto amico. Insomma, un maestro.
RispondiEliminaDici bene, Ettore: Moravia era un maestro. I libri che tu hai elencato li ho letti tutti. Anche i suoi saggi sono molto interessanti ed attuali.
EliminaCiao
è vero, Noia e Nausea costituiscono il punto di contatto letterario tra i due scrittori che personalmente considero caratterialmente molto diversi: Sartre piuttosto rigido, politico, antiborghese, saggista, Moravia, come dici tu, borghese lui stesso per quanto feroce nel tratteggiarla, annoiato, polemico più che politico, magnifico narratore.
RispondiEliminamassimolegnani
Sono d'accordo. I due scrittori erano molto diversi caratterialmente ed avevano anche una scrittura differente. Però sono accomunati, secondo me, dalle vicende di questi due romanzi i cui rispettivi protagonisti hanno molte "affinità elettive". Comunque, sia Sartre che Moravia sono stati due grandi testimoni ed osservatori del loro tempo, hanno raccontato i tormenti e le contraddizioni dell'animo umano, dando un grande impulso alla letteratura del Novecento.
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