
La nostra letteratura abbonda
di scrittori che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. Di solito le
autobiografie si redigono sempre alla fine del proprio percorso umano e
professionale, quasi con l’intento di stilare una sorta di resoconto di
un’intera esistenza. Lo scrittore ungherese Sandor
Marai, invece, quando pubblicò il suo libro di memorie “Confessioni di un borghese” - nella metà degli anni Trenta - aveva
solo trentaquattro anni e ne avrebbe vissuti altri 55. Io credo che scrivere un
romanzo autobiografico sia, spesso, una scelta ispirata da un inconscio desiderio
narcisistico: mettere se stessi al centro della scena e quindi della narrazione.
Ma credo anche che tale spinta possa nascere anche da un bisogno profondo, che è
quello di scavare tra i ricordi della propria memoria per far rivivere vicende
personali in cui possa ritrovarsi, in qualche maniera, anche chi legge. E’
chiaro, però, che se l’autore non possiede arte narrativa, se non ha vocazione
letteraria, il rischio che il racconto di tali fatti possa risultare noioso
agli occhi del lettore, è davvero molto alto. E devo dire che questo rischio non
si corre affatto con Sandor Marai: con la sua prosa colta, chiara e raffinata,
con i suoi illuminanti aforismi, con le sue profonde riflessioni sulla famiglia
e sulla solitudine dell’uomo, sul lavoro dello scrittore, sulla libertà, sulla
vita e sulla morte, con le sue belle pagine dedicate alle città in cui
soggiornò, “Confessioni di un borghese” sa coinvolgere emotivamente il lettore.
Tanto che si ha quasi l’impressione che i fatti privati narrati dall’autore
siano stati solo un pretesto narrativo, un punto da cui partire per fare vera letteratura.
Sandor Marai apparteneva ad una ricca famiglia borghese, i cui antenati
– di origine sassone – nel XVII secolo erano emigrati in Ungheria, dove avevano
servito fedelmente gli Asburgo. Una famiglia complessa, la sua, dove “collera,
passioni e interessi legavano persone diverse per temperamento e inclinazioni…nella quale si mischiavano
rabbia e abnegazione, poveri di spirito e personalità ipertrofiche”. Seguiamo
il narratore – nelle oltre 450 pagine del libro - a partire dalla sua infanzia nella
cittadina di Kassa (all’epoca impero austro-ungarico, oggi Slovacchia), alle
prese con le inflessibili teorie pedagogiche della madre, i cui orari che
regolavano la sua vita “erano rigidi come i ritmi imposti in tempo di guerra ai
marinai di una nave militare”. Il giovane Sandor aveva ereditato sensibilità e
irrequietezza dalla famiglia della madre, compensate dal senso della disciplina
e dall’innato rispetto dell’autorità propri dei suoi antenati paterni, che
“erano uomini riservati, taciturni e anticonformisti”. L’autore dimostra da subito
la sua attrazione per il giornalismo, la passione per la letteratura e la
poesia, ma suo padre (notaio reale, Senatore nonché Presidente della camera
degli avvocati di Kassa) avrebbe preferito che il primogenito dei suoi quattro
figli intraprendesse gli studi di giurisprudenza per poi diventare avvocato, al
fine di poter rilevare il suo avviato studio legale.
Ma le attitudini del giovane
erano altre. D'altra parte il suo desiderio di evadere (dalla famiglia, dalla
cerchia dei suoi parenti, dalla professione a cui era stato destinato, dal
matrimonio, dal suo paese e forse da se stesso) lo perseguitava e lo perseguitò
vita natural durante. Aveva solo quattordici anni quando scappò di casa la
prima volta “un vagabondaggio di poche ore”, ma quel “processo di rivolta”
proseguì, poi, per tutta la vita. “Non appartengo a niente e a nessuno – scrive
l’autore nel suo libro - Non esiste un solo essere umano – amico, donna o
parente che sia – di cui io riesca a tollerare la compagnia oltre un certo limite
di tempo; non esiste comunità umana, corporazione o classe sociale in cui possa
trovare il mio posto; per mentalità, modo di vivere e condotta spirituale sono
un borghese, e tuttavia mi sento a casa in qualsiasi ambiente tranne quello
borghese; vivo in un’anarchia che sento come amorale, e faccio fatica a
sopportare questa condizione”. Parole, queste, che descrivono senza mezzi
termini il personaggio che abbiamo di fronte. Si definiva “un nevrotico, un
pavido e un debole…un solitario, quasi un misantropo”, inadatto ad offrire
protezione a qualcuno, e non si sentiva attratto né dai soldi, né dall’amicizia,
né dalla felicità (“l’uomo felice non è creativo; è un uomo felice e basta”). L’appartenenza
ad una classe agiata lo faceva sentire in colpa, tant’è che da ragazzo provava un’irresistibile
simpatia per i suoi vicini di casa, proletari, che vivevano con tanta allegria.
E tutto ciò che diceva e faceva lasciava
trasparire quella ribellione latente, quei continui “progetti di fuga” per
evadere da quella “colonia penale” dove avrebbe dovuto espiare la sua “condanna
a vita”.
Nonostante avesse questo
spirito insofferente e anticonformista e fosse abituato a innamorarsi e a
disamorarsi, per poi dimenticare in fretta i suoi amori, nonostante gli
mancasse “l’equipaggiamento giusto per affrontare quella rischiosa spedizione
che è il matrimonio”, finirà per sposare Lola (della sua stessa classe sociale
“conosciuta agli albori della vita”), “il primo essere umano che cercò di
aprire un varco nella mia solitudine; e io le opposi una resistenza disperata”.
Ed è proprio la solitudine l’elemento vitale dello scrittore: vi si rifugia appena
può, fuggendo l’amicizia e le compagnie.
Comincia a girare il mondo
“come un predatore, trafugando paesaggi e angoli di strada con l’esaltazione di
un vandalo e incamerandoli nella memoria con una ingenua, trionfante voracità…”
Lo seguiamo, pagina dopo pagina, nelle sue peregrinazioni, nelle sue
innumerevoli scorribande per l’Europa:
“arrivavo in un posto per una breve visita – così scrive - e vi rimanevo sei
anni, scendevo dal treno in una città straniera per concedermi una notte di
sonno e cambiare la biancheria e non me ne andavo più per quattro mesi…”. Un
giramondo instancabile per le città della Germania sulle tracce di uno dei suoi
scrittori preferiti, Goethe, da Weimar a Dresda, da Lipsia a Francoforte. Poi a
Berlino, dove il padre incontra per la prima volta sua moglie Lola: le uniche
due persone che abbiano avuto un ruolo veramente importante nella sua vita. E’
il periodo, questo, in cui Sandor Marai comincia a bere in maniera smodata,
come se avvertisse uno strano bisogno di stordirsi. “Bevevo con disgusto –
scrive – da disperato. Cominciavo le giornate con i liquori più pesanti e le
concludevo con la vodka”. Lo troviamo poi a Parigi, dove insieme alla giovane
moglie condivide una vita da bohèmien. E ancora sarà a Londra, Vienna, Costa
Azzurra, poi in Medio Oriente, fino a giungere in Italia dove visita molte
città tra cui Torino, Venezia, Bologna, Firenze. Proprio a Firenze ha modo di conoscere
finalmente quella realtà storica ed artistica che per lui, fino a quel momento,
era stato soltanto “uno sfocato concetto dei tempi di scuola: il Rinascimento”.
Ma comincia ad avvertire che una fase della sua vita sta per concludersi:
arriva sempre il giorno “in cui è l’anima a mettersi in viaggio, e allora il
mondo si trasforma in un elemento di disturbo”. Sopraggiunge il momento per lo
scrittore in cui le “selvagge scorribande” della sua giovinezza - che gli
avevano fatto conoscere il mondo e tante persone eccezionali – si
affievoliscono e allora sente il bisogno di tornare a casa, nella sua Ungheria,
sebbene quell’imperativo gli “ispirasse un senso di frustrazione e di rivolta”.
Scrive, alla fine di questa avventura: “Sarei tornato in patria, e da quel
momento in poi sarei vissuto a casa mia, né bene né male, niente affatto felice
e contento, ma piuttosto irrequieto, infastidito, nervoso, pieno di nostalgia e
tormentato dal desiderio di fuga… Dovevo avvicinarmi all’altra realtà, al
piccolo mondo, avevo finito di recitare la mia parte, e adesso sarebbe iniziato
il balbettio dell’esistenza quotidiana…”
Le ultime sei pagine del libro
- dedicate alla morte del padre - la cui vita “era stata contrassegnata
dall’eleganza, dalla bontà e dalla cortesia”, sono di una struggente,
malinconica bellezza. Da leggere e rileggere. “Era stato l’unico essere umano –
scrive il narratore a proposito del padre - con il quale avessi qualcosa in comune…Si
stava congedando da me, dal suo primogenito, e sembrava che volesse farlo
trasmettendomi un segreto, una parola-chiave della nostra famiglia, un
lasciapassare per la vita, un segno tutto nostro – ma poi rimase in silenzio,
come rendendosi conto che non è possibile aiutare nessuno, che gli individui e
le famiglie rimangono sempre soli con il proprio destino. Mi fissava con
sguardo indagatore, gli occhi spalancati, come se avesse voluto finalmente
sapere chi fossi, come se mi chiedesse di rispondere a un quesito rimasto
insoluto per troppo tempo. Ma non avrei saputo che cosa rispondergli. Quindi
allungò le dita pallide e delicate, e mi strinse la mano. Non disse neanche una
parola; chiuse gli occhi, e dopo un po’ lasciò la presa…”