Vittorio Sgarbi è un personaggio pubblico molto controverso, amato e
detestato, le cui parole rivolte ai temi politici – scritte nei suoi interventi
giornalistici oppure urlate in televisione – appaiono il più delle volte
bizzarre e discutibili; parole che diventano, invece, assai godibili quando riguardano
l’arte in tutte le sue espressioni. Ho letto diversi suoi libri. Egli sostiene che
esiste un nesso inscindibile tra poesia e sofferenza interiore, perché nessuno
meglio di un poeta che soffre sa elevare in versi le sue angosce, le sue paure,
i suoi patimenti. Per la gioia di quanti
amano la poesia. E allora, sembra quasi che per piacere e per attirare
l’attenzione degli animi più sensibili, una poesia debba nascere da un dispiacere
profondo, debba essere l’espressione di un animo inquieto e tormentato. Sembra
quasi che il dolore sia materia d’ispirazione per chi si accinge a scrivere e
che il poeta sia destinato a soffrire per rendere felici i suoi lettori
attraverso i suoi versi.
Se Leopardi – afferma Sgarbi - fosse stato un uomo bellissimo e non
quello scarto umano che tanta sofferenza gli procurava, non avrebbe mai potuto
deliziarci e commuoverci con i suoi versi dedicati all’amata Silvia; se la
Dickinson, sempre chiusa in casa da sola, avesse avuto alle spalle una vita
tranquilla e felice all’interno di un normale matrimonio borghese,
probabilmente non ci avrebbe regalato quelle pagine così toccanti, frutto della
sua sofferenza. Costoro, proprio perché non hanno mai conosciuto la felicità e
non hanno mai avuto una vita normale, sono riusciti ad attribuire una gioiosa disposizione
d’animo alla pagina scritta, restituendo a noi la felicità attraverso la loro
infelicità. Perché le condizioni difficili stabiliscono, molte volte, la base
di emozioni straordinarie, perché la poesia trasmette sempre felicità, anche
quando scaturisce dal dolore. Insomma, ciò che noi afferriamo in una poesia di
Leopardi o della Dickinson, secondo Sgarbi, non è la sofferenza o l’intimo
travaglio che sta alle loro spalle, ma l’ energia e la bellezza delle parole
che ci esaltano e ci inebriano, indipendentemente dal loro contenuto di
tristezza.
Vale la pena, perciò, trarre vantaggio e piacere dalla sofferta
esperienza di vita di chi sa nobilitare le sue pene attraverso la poesia, dato
che nessuno meglio di chi è stato infelice può darci insegnamenti di quotidiana
felicità.
sono d'accordo solo in parte con te e Sgarbi (devo ammettere che un personaggio così ripugnante sa davvero comunicare la bellezza dell'arte): è indubbio che la poesia scaturisce più facilmente da anime tormentate e persone felici, ma non mi sembra proprio che la poesia, genericamente, ci trasmetta felicità. C'è un diaframma tra lettore ed artista, e grazie ad esso noi possiamo serenamente godere della bellezza di versi scaturiti dal dolore, ma si tratta appunto di bellezza non di felicità.
RispondiEliminamassimolegnani
Innanzitutto c’è da premettere che Sgarbi non è la verità, anche quando scrive o parla di arte, la materia che conosce forse meglio di tutti. E poi sono d’accordo con te sul personaggio Sgarbi, il quale ce la mette tutta per rendersi antipatico, diciamo così. Quando tu scrivi che “noi possiamo serenamente godere della bellezza di versi scaturiti dal dolore, ma si tratta appunto di bellezza non di felicità”, qualcuno potrebbe obiettare che laddove c’è bellezza c’è felicità, una combinazione, quest’ultima, inscindibile. Ciao Carlo e grazie per le tue parole.
EliminaSono anch'io parzialmente d'accordo su quanto dice Sgarbi. Per scrivere è necessario sentire una sofferenza interiore ma non deve per forza essere nostra nel senso derivante da un proprio dolore interiore. Io scrivo poesie sociali e sento quando scrivo il dolore o la rabbia delle persone vittime delle distorsioni della società e l'ingiustizia che devono subire, ma riesco in tutto questo quando io personalmente sono sereno e sto bene non ho dolori particolari o sofferenze personali. In tal caso la poesia che può scaturire riguarderà più fatti della mia vita e non potrà essere sociale. Quindi è vero che per scrivere devi avere in quel momento uno stato di rabbia o dolore o fastidio profondo ma non deve per forza di cose riguardare se stessi.
RispondiEliminaQuando io leggo “sempre caro mi fu quest’ermo colle…” non avverto il dolore del poeta, non ripercorro il suo pessimismo, ma rimango invece estasiato di fronte alla potenza dei versi ed alla bellezza delle descrizioni. Ecco quindi che la poesia, che nasce da un dolore, diventa per me un momento di gioia. Ma questo non significa che io sia indifferente al dolore. Posso anche capire la sofferenza del poeta, ma in quel momento io percepisco solo la sublimazione della parola, la sua vitalità che mi fa dimenticare la sofferenza da cui scaturisce. La poesia sociale, come quella che scrivi tu, appartiene ad un universo differente e tocca altre sensibilità. Il poeta sente quelle tematiche e quelle ingiustizie che riporta in versi e cerca di coinvolgere chi legge attraverso la sua rabbia e la sua indignazione. Un saluto
EliminaConcordo con te Remigio.. bellezza e felicità vanno spesso braccetto, e si scrive per tormenti, ma anche ebbri di gioia. Soprattutto, chi scrive, scrive come respira, per default, senza stimoli particolari - certo meglio ove ce ne siano - ma può bastare un post a incuriosire, e a far pensare.. ;)
RispondiEliminaE' pur vero, però, che non basta respirare per scrivere...se così fosse, saremmo tutti scrittori. E tutti poeti. Anche se in Italia (paese dove si legge poco) gli scrittori - ma anche i poeti - abbondano. Comunque sono d'accordo con te: a chi scrive non occorre l'ispirazione. Ciao
EliminaHmmmmm (Neurino-Mio al lavoro)
RispondiEliminaDisabile dal 2000, vita da eremita e non amo la poesia. Però…
…però mi ritrovo in alcune tue frasi e posso “tradurle” così: l’energia e la bellezza delle parole, anche in prosa, mi aiutano a trovare bellezza nelle mie piccole vicende quotidiane.
...e ad abbandonare, almeno per un momento, le tue dichiarate difficoltà. Proprio così, Marzia! Anche un buon libro aiuta a sopportare meglio le nostre particolari vicende quotidiane. E forse, nel tuo caso, ancor di più, anche se metti in crisi le mie certezze sulla fondatezza delle tesi riportate nel post. Ti ringrazio per questo tuo gradito intervento. Un caro saluto
EliminaNon stimo Sgarbi come persona, troppo arrogante, tuttavia a volte ci azzecca, come quella volta che ha dato dell' imbecille a un figlio di papà con indosso jeans strappati. Una scenetta esilarante.
RispondiEliminaQuanto a Leopardi ... il mio prof sosteneva che l'etichetta di #poeta del pessimismo# fosse alquanto riduttiva.
L'arroganza di Sgarbi si attenua quando parla di arte. Su Leopardi, il tuo professore, probabilmente, aveva ragione :-)
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