Ambientato in un orfanotrofio
della Venezia di inizio ‘700 (attualmente conosciuto con il nome di Santa Maria
della Pietà), dove venivano ospitate le ragazze senza famiglia, il libro “Stabat mater” (Einaudi Editore) dello
scrittore veneziano Tiziano Scarpa –
che si è aggiudicato il Premio Strega nel 2009 – racconta la commovente e
intensa vicenda umana ed esistenziale di una di queste povere ragazze. Lei si
chiama Cecilia ed ha 16 anni. Di giorno suona magistralmente il violino e tutte
le notti, non riuscendo a dormire, si alza e di nascosto - dopo aver raggiunto
un posto segreto dell’antico palazzo - scrive lunghe e strazianti lettere alla
madre che non ha mai conosciuto. Le manifesta così le sue passioni, le sue
paure, i suoi tormenti più intimi, le sue speranze. E la madre diventa la sua segreta
confidente. La sua unica e più affidabile amica.
E’ un libro da cui traspare
solitudine mista a poesia. Se è vero che l’arte poetica spesso nasce dalla sofferenza
del suo autore, devo dire che la protagonista di “Stabat mater” riesce a
sublimare il suo dolore in un autentico canto poetico in onore di quella madre
che può solo immaginare. “Signora madre”,
scrive la protagonista in una delle sue tante lettere “vi scrivo in continuazione per farvi sentire quanto non esistete… Io
non so nulla di voi. Non so perché mi avete abbandonata qui, sedici anni fa.
Forse siete morta mentre nascevo, siete morta di parto e qualcuno mi ha portata
qui, invece di lasciarmi morire accanto a voi...” . Cecilia trascorre tutte
le notti in quel modo, fin da quando era piccolissima. La sua insonnia è
diventata una parte vitale di se stessa, tant’è che non potrebbe continuare a
vivere senza quell’appuntamento notturno con i suoi fantasmi.
E’ un mondo chiuso, immobile,
apparentemente senza speranza quello che svela il romanzo di Tiziano Scarpa, un
mondo scandito dalle abitudini dell’orfanotrofio che servono a lusingare gli
animi che non hanno altre gioie cui aggrapparsi. Un mondo fatto di privazioni,
dove prevalgono ed assumono importanza le parole scritte e la musica, piuttosto
che i fatti concreti dell’esistenza. Ma la musica, di cui si nutrono le ragazze
dietro le sbarre senza poter mostrare a nessuno il proprio volto, a volte appare
sterile e ripetitiva, priva di qualsiasi visione migliorativa. E poi c’è la misteriosa
bellezza di queste adolescenti sulla soglia della maturità - resa ancora più impenetrabile
dalla tormentata clausura - che si può solo immaginare. “Spargiamo bellezza nell’aria – dice Cecilia - e la menzogna della musica maschera la nostra afflizione”. Quindi
la musica, da espressione artistica e creativa che libera gli animi, diventa
una sorta di maschera ingannevole buona solo a coprire ulteriormente i loro
corpi, che già non si possono guardare e non esistono per gli altri. Così come
non esiste nella realtà quella madre a cui la protagonista si rivolge tutte le
sere attraverso le sue lettere, quasi per ottenere da lei un conforto, un
aiuto, una carezza. Il mondo reale si contrappone a quello dell’immaginazione
in cui sembrano sommerse le giovani donne; “per
avere sentore concreto del mio corpo” - scrive ancora Cecilia - “sono ridotta a immaginare che gli altri mi
immaginano. Riesco a prendere possesso di me soltanto se penso che qualcun
altro mi pensa”. E allora arriva addirittura a fantasticare e a desiderare un
giovane buono e ricco che venga a prenderla, a liberarla da quella schiavitù. Ma
ci si può innamorare di un volto che nasce dall’immaginazione, reso bello ed
attraente solo dalla musica che sa esprimere? Ci si può infatuare di un
fantasma? Per Cecilia, un filo di speranza sembra entrare nell’orfanotrofio il
giorno in cui arriva un nuovo maestro di violino: è il grande Antonio Vivaldi,
detto il “prete rosso” per il colore dei capelli. La musica, allora, può
finalmente assumere un significato più alto, può innalzare ancora di più lo
spirito delle allieve. Ma la musica, per quanto possa essere sublime, non può
comunque sostituirsi alla vita.
Terribile la condizione di quelle ragazze, due volte negate nell'identità: la prima alla nascita, la seconda nel doversi mantenere nascoste al mondo e poi, forse, anche a loro stesse.
RispondiEliminaNon so quanto dolore ci sia nel libro, ma le premesse ne indicano una quantità sconsiderata.
Ecco, io credo che scrivere ad una "madre invisibile", forse del tutto inesistente perché morta, sia un disperato tentativo di ricostruirsi attraverso chi ti ha generato.
La musica qui, per quel che percepisco dalla tua descrizione, appare non solo come una finzione, bensì, addirittura come una forma di tortura o di accompagnamento/colonna sonora alla tortura. (quante volte si è letto e saputo di questo orribile connubio tra musica e tortura?) Perché è tortura anche questo percorso di cancellazione dell'identità, e fisica, e storica, e familiare.
Cecilia scrive “per avere sentore concreto del mio corpo sono ridotta a immaginare che gli altri mi immaginano. Riesco a prendere possesso di me soltanto se penso che qualcun altro mi pensa”...si sa che l'identità di ciascuno nasce dall'altro da noi, dunque, la privazione dell'altro da noi cos'altro è se non tortura, induzione alla follia?
Un soggetto davvero originale quello di questo libro, lo comprerò.
Grazie per la segnalazione,
Sabina
Tutto ciò avveniva nel '700 e spero che oggi non sia più così, per chi ha la sfortuna di non avere una madre e una famiglia. Grazie a te per il bel commento.
EliminaDevo trovarlo, evidentemente.
RispondiEliminaPoi mi farai sapere...
EliminaAnch'io, a suo tempo, ho letto questo romanzo, ma ne avevo dimenticato la trama. Grazie per avermela ricordata. La mia memoria sta avendo un decadimento terribile o forse ho letto troppi libri. Sono qui anche per salutarti, visto che mando in ferie anche il mio blog. Un cordiale arrivederci a settembre.
RispondiEliminaNicola
La memoria comincia a fare brutti scherzi anche a me. Ma lasciamo perdere e goditi le tue serene vacanze. Ci troveremo con piacere a settembre. Ciao Nicola.
Elimina