“Ah, come avvilisce un
uomo, la miseria!”
Quando il romanzo “Povera gente” fu dato alle stampe nel 1846,
il suo autore Fedor Dostoevskij aveva solo 24 anni ed era un
perfetto sconosciuto. Bastò quella prima pubblicazione per lanciarlo nel
firmamento della letteratura mondiale. La critica lo acclamò come il nuovo
Gogol.
Due sono i protagonisti
principali della narrazione: Makàr, un attempato e oscuro impiegato, un
brav’uomo, incapace di fare del male al prossimo, che vive relegato in una
umile pensioncina, proprio di fronte al caseggiato in cui conduce la sua esistenza
una giovane ragazza molto povera di nome Varvara. E’ un romanzo epistolare che racconta
la società indigente della Russia zarista della prima metà dell’Ottocento e si
immerge nella realtà popolare dei sobborghi di San Pietroburgo, con tutti i
suoi problemi di sopravvivenza. Sono lettere appassionate quelle che si
scrivono Makàr e Varvara, tenere e amare, ma anche piene di buoni sentimenti,
sono componimenti a volte struggenti, velati di malinconia, seppure schermati
da un incrollabile ottimismo nei confronti della vita e del futuro; sembra
quasi che i due soggetti, legati dallo stesso destino, attraverso questa
accorata corrispondenza cerchino un reciproco conforto, una sorta di benevola
alleanza, per alleviare così quella condizione di estrema povertà in cui
appaiono relegati dalle circostanze della vita.
Makàr è un uomo pieno di
carità cristiana il quale, nonostante viva in una condizione di estrema
indigenza, non sembra demoralizzarsi, anzi appare pieno di ottimismo e cerca di
trasmettere questa voglia di riscatto morale e sociale anche alla sua
dirimpettaia, di cui sembra intimamente innamorato. Il suo è un sentimento
inconfessato che però traspare dalle lettere, sempre piene di affetto e di
premura per la sua giovane protetta, lettere che sono diventate la sua unica
gioia, la sua esclusiva ragione di vita. Ma la giovane le procurerà un grande
dispiacere, quando gli confesserà, nella sua ultima e straziante missiva, che
ha preso una decisione irrevocabile…
curioso che due dirimpettai comunichino per lettera, già da questa scelta immagino la loro ritrosia a incontri più ravvicinati.
RispondiEliminamassimolegnani
Si può stare vicini, scrivendosi. Mi viene in mente la storia dell’amore appassionato e travolgente tra Abelardo ed Eloisa che utilizzarono la pagina scritta per le loro prime esperienze amorose. E così, rivolgendosi ad Eloisa, il monaco Abelardo scriveva: ”....pensavo anche che se pure fossimo stati lontano avremmo potuto scriverci e che anzi molte cose avremmo osato più facilmente scriverle che dirle, e così saremmo stati sempre vicini attraverso questo dolce modo di conversare..”. E già: con la scrittura si può osare. Si evita di arrossire. :-)
EliminaComplicatissimo parlare di Dostoevskij. Recensirlo? Opera ardua.
RispondiEliminaSono d'accordo con te: Dostoevskij è uno di quei mostri che ti abbatte e ti fa sentire piccolo. Forse è meglio leggerlo che recensirlo.
EliminaL'ho letto anch'io ma l'ho trovato noioso. SL
RispondiEliminaA volte anche i grandi autori possono annoiare. Non lo metto in dubbio. Comunque, senza offesa per nessuno, ad impensierirmi non è tanto la noia che desta un "piccolo" libro di Dostoevskij, quanto l'entusiasmo che suscita un "capolavoro" di Fabio Volo.
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