In questi ultimi tempi i libri
più belli li trovo quasi sempre sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. A
volte sono testi che, inspiegabilmente, gli editori si rifiutano di stampare,
indaffarati come sono a sommergerci di thriller, dove i morti ammazzati
abbondano, e di improbabili libri di ricette di cucina, scritti non già da
grandi chef – come la logica vorrebbe – ma da presentatrici e veline della
televisione che, non si sa in base a quali competenze ed abilità gastronomiche,
aspirano ad offuscare la fama di Pellegrino Artusi.
Giambattista Angioletti -
l’autore di questo straordinario romanzo che si intitola “La memoria” - è un
nome sconosciuto alla stragrande maggioranza dei lettori; ed era sconosciuto
anche al sottoscritto fino a quando il suo fiuto non l’ha scoperto, nascosto e
quasi schiacciato da una mole impressionante di volumi di Ken Follet, in
vendita sulla stessa bancarella un tanto al chilo.
Questo autore “ troppo mite e disincantato, gran signore
delle lettere, dai gesti nobili e lenti, dalle parole sobrie e meditate” -
come scrisse di lui una sua amica scrittrice, Clotilde Marghieri - era nato a
Milano nel 1896 e fu un acceso
sostenitore di una letteratura aurea, rigorosa, direi aristocratica; fautore
di una sorta di prosa d’arte, messaggera di atmosfere poetiche e auliche,
velata di dolce e struggente malinconia. Trascorse gli ultimi anni della sua
vita a Torre del Greco, “il suo approdo
finale” in una casa di campagna ai piedi del Vesuvio, “illudendosi di avervi trovato la pace” e rammaricandosi che i suoi
amici del nord non capissero questo suo amore per il sud, pur continuando a
sentirsi milanese a Napoli. Così scriveva ancora la sua amica Clotilde
Marghieri: “…qui, nella sua stanza bianca
come una cella, al suo tavolo di lavoro messo in modo da poter guardare la casa
di Leopardi, egli voleva vedere nella memoria tutti i luoghi scoperti e amati;
e insieme con la memoria personale voleva coltivare quella memoria comune di
tutti i paesi e di tutti i tempi, che nella sua forse utopica Europa stava a
simboleggiare il suo sogno di fratellanza umana. Qui, prima di morire, diceva,
doveva rileggersi tutti i classici, accomiatarsi dai Maestri…”
Io credo che egli stesso oggi sia
da considerare un Maestro e, leggendo questo suo libro, dalla prima all’ultima
pagina, non si può non rimanere incantati di fronte alla bellezza della sua prosa.
“La memoria” è il racconto
autobiografico e retrospettivo della sua infanzia ed adolescenza vissuta nella
Milano di fine Ottocento e prima della guerra del 1915-18. L’io narrante è un
ragazzino “figlio di signori”,
solitario, ultrasensibile, riflessivo e triste il quale, proprio nell’età in
cui si è spensierati e felici, lui - governato da demoni invisibili - si
interrogava sui grandi temi dell’esistenza: l’eternità, l’infinito, Dio,
l’amore, il dolore, l’infelicità, la povertà, la ricchezza. Si chiedeva “per quale perfido disegno si nasce creature
umane, e non piante, pietre, nuvole”; si domandava perché mai il mondo “ si dividesse in servi e padroni, in poveri
e ricchi” e si interrogava sull’esistenza di Dio: mai avrebbe trovato pace “fin quando la presenza divina non fosse
diventata in me, anziché angosciosa, soccorrevole e consolatrice”.
Era un bambino che appariva privo
delle qualità necessarie ad assicurarsi il successo nella vita: la
disinvoltura, la parola facile e spiritosa, la furberia, la vivacità. Tutto ciò
lo rendeva infelice; non riusciva ad essere spigliato e sicuro come i ragazzi
del viale in cui abitava, che lui ammirava e ai quali si sforzava di
somigliare. Ma invano. E soffriva. E allora avrebbe voluto “dare la testimonianza di qualche istinto malvagio, rompere un vaso di
cristallo, dar lo sgambetto ad un ospite, imitare la voce chioccia di una
vecchia signora: tutte imprese portate a termine con successo da altri ragazzi”.
Ma non avrebbe mai trovato il coraggio per queste azioni.
Il libro si divide in 12
capitoli, ognuno dei quali si sofferma su un momento significativo della sua vita
adolescenziale ed in particolare: il viale dove abitava con la sua famiglia e
dove si svolgevano tutte le attività sociali e commerciali; il laboratorio di
ceramiche del nonno, dove si sentiva ingiustamente rifiutato dagli operai solo
perché era il nipote del padrone; e poi la sua casa, frequentata da “personaggi di riguardo” che parlavano
sempre di affari, di danaro, eccitandosi ed animandosi “ognuno impaziente di raccontare come riuscisse a sedurre i clienti, a
ingannare i provinciali, a sventare i tranelli dei concorrenti, tra il fumo
acre dei lunghi sigari, il risuonare delle catene d’oro sui panciotti e le
acclamazioni avide delle mogli”; e poi le feste, durante le quali tutti “diventavano pii e devoti”, tutti
fingevano di divertirsi, come i pagliacci del circo, “tanto esperti nel fingere l’entusiasmo e la gioia”; e poi il ballo
in maschera al Circolo dove i partecipanti, con i loro travestimenti “non avevano più bisogno di nascondere il
loro vero animo, come facevano ogni mattina ricomponendo il volto a gravità, a
dignità (…), camuffati da diavoli e da buffoni potevano finalmente dar sfogo ai
loro veri istinti puerili, inverecondi e dispettosi”.
Ma come poteva risollevarsi
questo bambino intelligente e dall’animo nobile e sensibile, che dava il meglio
di sé nella tristezza anziché nell’allegria? Che non mostrava alcuna abilità,
che arrivava sempre ultimo, che non sapeva divertirsi, che era sempre
pensieroso? Che appariva troppo buono, sottomesso, mansueto, forse sciocco, che
veniva preso in giro dai suoi compagni e che, date le sue caratteristiche, non
avrebbe mai potuto raggiungere un’onorevole posizione nel mondo? Come poteva
diventare degno di attenzione?
Sono le parole a salvarlo. Capisce
che i fatti della sua vita, ricreati dalle parole, apparivano in una luce più
precisa e attraente; si accorge che per far vivere la realtà “bisognava descriverla, le parole
risollevavano le immagini affastellate nella memoria come vecchie tele in una
soffitta; e anche gli avvenimenti più paurosi diventavano nella rievocazione
affascinanti”.
E cosa c’è di più bello della pagina
scritta, anche quando è chiamata a raccontare il grido di dolore di un bambino?
La pagina scritta – se ben scritta -- riesce a far dimenticare anche la
sofferenza interiore che intende raccontare e ciò che si coglie in essa non è
tanto la difficile condizione di chi soffre, quanto la vitalità e l’eleganza
della prosa, la raffinata ironia che aleggia in alcune bellissime descrizioni,
l’armonia dei pensieri. Tutto questo è il libro.
Giambattista Angioletti.
RispondiEliminaNon l'ho mai letto.
Non possiamo conoscere tutti gli scrittori e tutti i libri. Pensa che S. Agostino, durante tutta la sua vita, aveva letto "solo" 300 libri. Io di libri sicuramente ne ho letti di più, eppure la mia cultura non è paragonabile a quella del vescovo di Ippona.
EliminaAi tempi di S. Agostino leggere 300 libri significava aver letto quasi tutto lo scibile disponibile.
EliminaE' vero! :-)
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