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lunedì 19 ottobre 2015

La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano



“sentirsi speciali è la peggiore delle gabbie che uno possa costruirsi”

 
E’ il romanzo d’esordio narrativo di questo giovane scrittore di Torino, nato nel 1982, con cui ha vinto il premio Strega 2008 ed il premio Campiello Opera Prima. Lo ricevetti in regalo nell’anno della sua pubblicazione e lo lessi immediatamente. Solitamente non mi piace leggere il libro del momento, di cui tutti parlano, best seller, tradotto magari in tutte le lingue del mondo: insomma l’ultimo prodotto letterario che fa bella mostra di sé nelle librerie, con la bella faccia dell’autore in quarta di copertina che ci invita ad acquistarlo. Sono cauto, non sempre mi fido, soprattutto se l’opera viene presentata come “il più eclatante caso letterario dell’anno”. Preferisco, invece, che quel romanzo decanti un po’, si faccia le ossa, invecchi come un buon vino. Solo così riesco – forse - ad apprezzarlo ed a gustarlo. Mi piace leggerlo quando nessuno più se lo ricorda, quando le pagine sono un po’ ingiallite col tempo, quando è passato quell’entusiasmo generale di massa. Non è stato così per “La solitudine dei numeri primi” e devo dire che all'epoca ne rimasi soddisfatto: felice di averlo letto quando tutti lo leggevano.

E’ un romanzo di formazione. Il nucleo centrale della narrazione ruota intorno ai “due numeri primi”  Alice e Mattia, figli di due famiglie della ricca borghesia: l’autore li segue passo dopo passo dalla prima infanzia, quindi durante l’adolescenza fino alla piena maturità; scandaglia attraverso alcuni episodi di vita vissuta le loro intime esistenze, ferite da tragedie da cui sono state segnate dall’infanzia: un incidente sulla neve per Alice, che le ha causato una imperfezione ad una gamba e la fa zoppicare, e la scomparsa della sorella gemella per Mattia, a causa di una sua imperdonabile negligenza, che lo aveva spinto per il rimorso a conficcarsi un coltello nella mano.

Quando un dolore penetra nell’animo di un bambino, ne rischiara la profondità fino a spingere all’esterno una spiccata sensibilità che forse resterebbe nascosta se non si verificassero eventi traumatici. E così sembra sia successo ad Alice e Mattia; i due appaiono diversi dagli altri ragazzi della loro stessa età, tendono ad isolarsi, dimostrano un’indole solitaria, un temperamento molto sensibile, si mostrano timidi ed impacciati, si sentono inadeguati, però hanno dalla loro parte altre qualità: Mattia, ha un’ intelligenza superiore alla media, è un ragazzo straordinariamente dotato, che sembra non voler creare legami con nessuno. E’ solamente interessato allo studio e i suoi risultati scolastici tendono sempre al massimo “c’é qualcosa di spaventoso in quei voti” afferma addirittura sua madre.

Alice invece - che è sempre in lite con la sua famiglia – è dotata di grande sensibilità, è alla ricerca disperata di una sua indipendenza, vorrebbe sembrare come le sue amiche che sono spregiudicate ed estroverse; lei invece è molto timida, confusa, impacciata, anoressica e spesso diventa lo zimbello e il divertimento delle sue compagne di scuola. I due si sentono speciali, ma “sentirsi speciali è la peggiore delle gabbie che uno possa costruirsi”.

L’intelligenza, così come una eccessiva sensibilità, a volte emarginano, generano distanze e diversità, creano una sorta di muro invalicabile tra la persona dotata e gli altri; il ragazzo con un quoziente intellettivo superiore fatica a riconoscersi nel gruppo dominante, incontra difficoltà nell’adeguarsi ad un comportamento univoco, nel mettersi in sintonia con coetanei superficiali e insignificanti. E allora viene emarginato ed escluso, viene a volte irriso e sbeffeggiato determinando in chi subisce tale angheria psicologica una sofferenza insanabile che sfocia inesorabilmente nella solitudine. “I più grandi emarginati del tempo presente” - dice lo psichiatra Vittorino Andreoli - “sono le persone veramente intelligenti”. L’intelligenza è un po’ come la bellezza, che affascina e seduce ma non facilita l’incontro, crea differenze profonde e genera spesso distanze incolmabili.

Il racconto si dispiega inizialmente attraverso episodi indipendenti e paralleli, flash  di immagini e di eventi, slegati gli uni dagli altri. L’autore alterna in maniera sapiente le storie di Mattia e di Alice, con una prosa piacevole ed accattivante, a volte ironica e riflessiva, fino a quando i due adolescenti si incontrano per la prima volta a casa di una loro amica, dove erano stati invitati per una festa e dove si riconoscono e si accettano intimamente diversi. E’ proprio questa loro diversità che li accomuna e li unisce, ma allo stesso tempo li allontana.

Trascorrono così gli anni del liceo come in apnea “lui rifiutando il mondo e lei sentendosi rifiutata dal mondo” costruendosi una strana amicizia “difettosa e asimmetrica, fatta di lunghe assenze e di molto silenzio, uno spazio vuoto e pulito in cui entrambi potevano tornare a respirare, quando le pareti della scuola si facevano troppo vicine per ignorare il senso di soffocamento”. Sempre timidi e imbarazzati, Alice si nasconde dietro la sua anoressia, quasi a voler diventare trasparente e invisibile agli altri, mentre Mattia, chiuso nei suoi silenzi e in quella sua incapacità di comunicare le sue emozioni ed i suoi sentimenti, sembra scappare via dalla vita e dal mondo.

 

sabato 3 ottobre 2015

Il senso del tragico secondo Ceronetti




Guido Ceronetti è senza dubbio uno dei più incisivi e graffianti osservatori della nostra società; e in un mondo in cui sembra prevalere soltanto il pensiero unico, le sue parole dissacranti e trasversali rappresentano un segnale vivo di libertà, autentico baluardo contro l’omologazione culturale. Per i benpensanti e per i malati di ottimismo, questo “giovane” pensatore di 88 anni – “io sto consumando gli avanzi di questa mia lunga, affaticata vita” così scrive - può apparire un nichilista e un disfattista, soprattutto per il modo tagliente con cui dipinge la realtà dei nostri tempi. Tuttavia i suoi scritti brevi ed i suoi aforismi hanno la straordinaria capacità di far riflettere anche coloro che si ostinano - come si suol dire - a coprirsi gli occhi con delle fette di prosciutto. Chi conosce  Ceronetti sa che è l’ideatore di un singolare teatro i cui spettacoli vengono allestiti per strada, dove giovani attori danno voce e movimento a delle marionette. Ma pur essendo un artista di strada – come lui stesso si definisce – non credo proprio che la sua scrittura erudita sia adeguata all’uomo della strada.
In questo suo ultimo saggio Tragico tascabile (pubblicato da Adelphi), lo scrittore raccoglie una serie di brevi e affilate riflessioni su alcuni temi di stringente attualità, che vanno dalla cronaca nera a quella politica, dai fatti internazionali come quelli riguardanti la Grecia alle notizie di più spicciola quotidianità, come fare la spesa in un centro commerciale, dalle problematiche ambientali a quelle religiose. Ci parla della crisi della cultura, quale tutela dell’identità nazionale: “ce la stanno smerdando bravamente, senza un grido di rivolta, a colpi di intrusioni massicce di locuzioni e nomenclatura angloamericane” e lancia il suo grido di allarme “contro l’enorme afflusso di popolazioni indicibilmente estranee a tutto quanto l’Italia rappresenta di non materiale”. Usa parole pungenti contro l’universo tecnologico: lo smartphone “è un baratro senza fondo in cui l’utente (l’essere, l’anima umana), una volta catturato, precipita senza fine”. Si scaglia con veemenza contro chi permette, con mezzi meccanici e farmacologici disumani, “la moltiplicazione insensata e tragica di vecchiaie”, perché allungare sempre di più la vita è come subire una lunga e terribile tortura. Ma confessa anche il suo personale fallimento per avere assistito al crescente peggioramento della nostra lingua, la scritta e la parlata, senza poter far nulla per impedire tale inesorabile declino.