Viviamo in una società che si rifiuta di affrontare il tema della morte,
una società che ha impostato la propria organizzazione immaginando che non
esista o che non abbia alcun legame con la vita. Ma, come diceva Michel de
Montaigne, “nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio”.
Forse mai come adesso il pensiero della morte ci spaventa; abbiamo il
terrore di quel “tuffo” - raffigurato su quella celebre lastra funeraria del V
secolo a.c. conservata nel Museo di Paestum - che per gli antichi Greci
simboleggiava il salto metaforico dal mondo dei vivi a quello dei morti. Abbiamo
paura di interrogarci sulla morte e facciamo di tutto per allontanarla dai
nostri pensieri. Ma se da un lato c’è questo maldestro tentativo di
rimuoverla dalle nostre esistenze, dall’altro la morte irrompe quotidianamente
sugli schermi televisivi, entra nelle case come un vero e proprio
spettacolo e viene mostrata nelle sue varie ed
innumerevoli rappresentazioni. E’ la spettacolarizzazione della
morte degli altri che ci attrae in maniera morbosa. Una morte causata – il
più delle volte - da tragedie familiari o naturali e poi da guerre o carestie,
il cui drammatico evento pur generando dispiacere, ci sfiora ma non ci tocca,
lo viviamo con dolore, a volte con indifferenza, ma ne usciamo affrancati
perché la morte appartiene sempre agli altri. E basta questo a
tranquillizzarci.
E succede che per scacciare queste nostre antiche paure, per rendere più
sopportabile la vita, cerchiamo sempre di esorcizzarla, la morte: a volte con l’indifferenza,
a volte con la fede, a volte con la superstizione. E da un po’ di tempo a
questa parte anche con lo spettacolo televisivo della morte che comprende l’appaluso
al morto. Tentiamo, inoltre, di tenere a bada anche la vecchiaia attraverso rimedi
fittizi sempre più sofisticati: interventi di chirurgia estetica, attività
sportive, diete salutari e dimagranti, atteggiamenti giovanili. Ci
illudiamo, così, di poter sconfiggere la morte. Una immorale fantasia di
onnipotenza su cui dovremmo stendere un velo pietoso, perché la morte altro non
è che l’inevitabile conclusione della vita.