giovedì 16 ottobre 2025

La civiltà del troppo

 


Siamo frastornati dal “troppo” che oramai invade le nostre esistenze.

Mi trovo all'interno di un vagone della metropolitana di Roma. Seduta accanto a me una signora mi “costringe” ad ascoltare la sua affranta telefonata. Racconta ad una sua amica che dopo una giornata di duro lavoro in ufficio (sob!), deve ora sobbarcarsi: un corso di pittura; poi deve portare fuori il cane per i suoi bisogni; poi ha la palestra e la spesa al supermercato; in serata deve partecipare a una cena con i colleghi per festeggiare un compleanno; e - dulcis in fundo – l’immancabile visita ai social, prima di andare a letto. Che vitaccia!

Sembrerebbe – a sentire quella signora - che le nostre giornate siano ormai zeppe di impegni e di appuntamenti. Tra corsi di inglese e gare di ballo, tra esercizi in palestra e acquisti compulsivi, tra incontri virtuali in rete e serate in pizzeria con gli amici, tra fiumi di  messaggi improbabili e telefonate superflue, pianifichiamo il nostro tempo in maniera irrefrenabile, senza alcuna pausa. E come se tutto ciò non bastasse, ci  si mettono pure i mezzi di informazione bombardandoci con immagini e messaggi pubblicitari e video i più disparati e assurdi e notizie di ogni genere che dovrebbero suscitare, in chiunque, una reazione di rifiuto e di nausea: ma ciò non succede, assuefatti come siamo ad ogni forma di orrore. Non contenti, poi, ci spostiamo velocemente da un posto all’altro del pianeta, prendiamo  la macchina anche per percorrere pochi metri e nulla sembra più turbarci: violenza, maleducazione, volgarità, rumori, sporcizia nei posti in cui viviamo. Siamo sempre alla ricerca spasmodica di “qualcosa” che possa riempire quel probabile “vuoto” giornaliero e che faccia tacere quel silenzio di cui abbiamo una paura fottuta. E allora, musica di sottofondo che non è una sinfonia ma solo rumore; e poi televisione sempre accesa in casa e monitor nei locali pubblici e nelle stazioni dei treni e delle metropolitane che sparano pubblicità. Ma la cosa che più ci appassiona e con cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo è il cellulare. Smanettiamo istericamente su quella magica scatoletta mentre guidiamo, mentre mangiamo, mentre stiamo con i nostri figli, mentre camminiamo…insomma, sempre, tranne in quelle poche ore di sonno. Non siamo più capaci di stare fermi e pensare, di oziare senza fare niente, di guardare trasognati il mondo che ci circonda; non esistiamo senza uno smartphone tra le mani. E non conosciamo più l’attesa, perché dobbiamo agire e rispondere con urgenza in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione. Tutto è diventato terribilmente improrogabile. Facciamo troppe cose, anche in una giornata ordinaria. E quando troppe cose premono contemporaneamente alle porte e reclamano di essere soddisfatte e capite, finiamo per esserne sopraffatti. Ma non ce ne rendiamo conto!

Franco Arminio, poeta e scrittore molto sensibile a queste tematiche del vivere quotidiano, scrive: “In un giorno incontriamo tante persone, gli incontri in rete comunque sono incontri e le parole sono parole e le emozioni sono emozioni: è tutto vero e tutto falso ed è tutto un ronzio che ci sfinisce. Per guardare il mondo ci vuole un poco di silenzio, bisogna restaurare le vigilie. Adesso le cose accadono una dietro l’altro, le attacchiamo senza tregua, senza spazi vuoti: magari ascoltiamo un messaggio mentre ci laviamo la faccia, parliamo al telefono mentre guidiamo, decidiamo un amore villeggiando al sole di facebook. I luoghi possono ancora essere visti, ma non basta andare in un luogo, bisogna aver cura di vedere poco, di fare poche cose in un giorno, di lasciare un poco di vuoto in mezzo alle giornate. L’assillo di esserci rischia di farci diventare sempre più irreperibili a noi stessi e agli altri. E il mondo diventa vago e imprendibile come una nuvola”.


venerdì 3 ottobre 2025

Quel "tuffo" che ci spaventa

 


Viviamo in una società che si rifiuta di affrontare il tema della morte, una società che ha impostato la propria organizzazione immaginando che non esista o che non abbia alcun legame con la vita. Ma, come diceva Michel de Montaigne, “nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio”.

Forse mai come adesso il pensiero della morte ci spaventa; abbiamo il terrore di quel “tuffo” - raffigurato su quella celebre lastra funeraria del V secolo a.c. conservata nel Museo di Paestum - che per gli antichi Greci simboleggiava il salto metaforico dal mondo dei vivi a quello dei morti. Abbiamo paura di interrogarci sulla morte e facciamo di tutto per allontanarla dai nostri pensieri. Ma se da un lato c’è questo maldestro tentativo di rimuoverla dalle nostre esistenze, dall’altro la morte irrompe quotidianamente sugli  schermi televisivi, entra nelle case come un vero e proprio spettacolo e viene mostrata nelle sue varie ed innumerevoli  rappresentazioni. E’ la spettacolarizzazione della morte degli altri che ci attrae in maniera morbosa. Una morte causata – il più delle volte - da tragedie familiari o naturali e poi da guerre o carestie, il cui drammatico evento pur generando dispiacere, ci sfiora ma non ci tocca, lo viviamo con dolore, a volte con indifferenza, ma ne usciamo affrancati perché la morte appartiene sempre agli altri. E basta questo a tranquillizzarci.

E succede che per scacciare queste nostre antiche paure, per rendere più sopportabile la vita, cerchiamo sempre di esorcizzarla, la morte: a volte con l’indifferenza, a volte con la fede, a volte con la superstizione. E da un po’ di tempo a questa parte anche con lo spettacolo televisivo della morte che comprende l’appaluso al morto. Tentiamo, inoltre, di tenere a bada anche la vecchiaia attraverso rimedi fittizi sempre più sofisticati: interventi di chirurgia estetica, attività sportive, diete salutari e dimagranti, atteggiamenti  giovanili. Ci illudiamo, così, di poter sconfiggere la morte. Una immorale fantasia di onnipotenza su cui dovremmo stendere un velo pietoso, perché la morte altro non è che l’inevitabile conclusione della vita.