venerdì 13 giugno 2025

Viaggio nel Cilento

 


Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti, nonché le caratteristiche antropologiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto interessante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi ha stimolato (da buon cilentano) a fare una breve riflessione. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di oltre 140 anni da quel viaggio – quanto le caratteristiche identitarie di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento appartengano ancora ai moderni cilentani. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: non ho né la competenza né gli strumenti conoscitivi per farla. Vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza, senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, offre la possibilità di guardarsi allo specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo. 

La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”. 

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui, oggi, possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) votate a questo tipo di canto di stampo orientale. I mass media, l’omologazione dei comportamenti e… Sanremo hanno provveduto, in maniera definitiva, a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene, quando ho letto questa frase, il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, il quale avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”. 

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino riferito a Roma: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini. 

De Giorgi aveva inoltre riscontrato nella popolazione la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili. 

E mi chiedo, per finire: gli odierni cilentani si sono risvegliati da quell’antico torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti e, nel bene e nel male, ognuno può trarre le proprie conclusioni. Mi viene da pensare che quando un popolo - qualunque esso sia - riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per poterla combattere. E penso che debba anche investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

lunedì 2 giugno 2025

Come sopravvivere alla modernità

 


“Considerare la modernità come una malattia è il primo passo per curarla”. Lo scrive lo scrittore Alain De Botton nel suo ultimo libro che si intitola “Come sopravvivere alla modernità”. Pur avendo portato benessere e ricchezza, pur avendo allungato l’aspettativa di vita, liberato l’uomo dalle fatiche fisiche e dalle malattie, la modernità ci ha alienati, ci ha resi più ansiosi, ci ha disorientati ed esasperati come non era mai accaduto prima. Ha trasformato il nostro modo di pensare e di sentire ed ha apportato una serie di cambiamenti radicali in molti ambiti della nostra vita. Il segno più evidente è dato dall’informazione: siamo sempre connessi con un altrove indefinito. Veniamo continuamente assaliti da notizie di guerre in corso, di disastri ambientali, di tragedie familiari e umanitarie, di pettegolezzi politici e mediatici, di fatti anche minimi che, pur accadendo nei posti più remoti del pianeta, entrano prepotentemente nella nostra esistenza, anche se non ci riguardano da vicino. Ma le notizie di cui abbiamo veramente bisogno – sostiene De Botton – sono quelle che ci parlino della necessità di riflettere sulle cose, di ascoltare, di apprezzare ciò che abbiamo, di essere gentili ed accoglienti, educati e civili, di tornare a stili di vita più umani. Notizie più vicine alle nostre esigenze, alla nostra sensibilità e alla nostra capacità di poterle elaborare, notizie che possano acquistare il rilievo che meritano e lasciar perdere tutto il resto, mantenendo l’indipendenza mentale necessaria per non essere sopraffatti dalla volontà di chi ci vuole omologati nelle sue forme più ottuse e spietate.

La modernità, così rapida nei cambiamenti e nel cancellare tutto ciò che appartiene al passato, ha scatenato, in chi fatica ad assecondare i gusti imposti dal mercato globale, un’ondata di nostalgia per le cose semplici di una volta. Ha generato elaborate fantasie di fuga verso isole lontane, rifugi di montagna, luoghi isolati o piccoli borghi a misura d’uomo dove prendere le distanze dal caos, dai continui stimoli pubblicitari, dalle macchine e da certe “sirene” che vogliono rubarci il tempo. Desideri estremi, questi, che pur non essendo destinati a tradursi in realtà, rappresentano tuttavia il sogno suggestivo di tante persone - compreso lo scrivente - di fronte ai disastri del nostro tempo.

Se avessimo il coraggio di mettere in discussione i ritmi frenetici della vita moderna e limitare l’uso dei suoi strumenti tecnologici di cui siamo diventati schiavi; se avessimo la forza di prendere le distanze da tutto ciò che appare urgente; se fossimo capaci di non seguire passivamente le mode imperanti, di stare lontani dai consumi superflui, ebbene ci renderemmo conto che, in fondo, abbiamo bisogno di poche cose e che starsene in una stanza silenziosa in compagnia dei nostri pensieri “è forse il luogo più produttivo in cui ci si possa trovare”. I pensieri più brillanti nascono quando abbiamo la possibilità di stare da soli, passeggiando in un bosco, guardando  fuori dalla finestra nei tempi vuoti della giornata, ascoltando il silenzio.

La modernità, dice l’autore del libro, ha costruito gli ambienti urbani più deprimenti, caotici e  sgradevoli che la storia ricordi, anche se  li ha resi funzionali. In un ambiente degradato, anche con una vita ricca dal punto di vista materiale, il nostro spirito ne  risente e si fiacca perché i luoghi in cui viviamo parlano di noi e ci condizionano. La modernità ci ha dato un mondo più ricco, non un mondo più bello. La sfida, perciò, è non perdere di vista il nostro bisogno di bellezza e lottare contro certe forze della modernità che ci impediscono di assecondarlo. E’ stata la conoscenza a guidare il progetto della modernità, e la strada da fare è ancora lunga. L’uomo è l’animale sapiente. La modernità sarà anche un’epoca confusa – conclude De Botton – ma la traiettoria del futuro è chiara: non solo continuare a soffrire a cicli ricorrenti, ma anche gettare sempre più luce sull’oscurità primordiale – in linea con le nostre migliori potenzialità – per capire come scongiurare i pericoli della modernità.